Dubbi sulla normativa prevista per i centri riabilitativi degli uomini maltrattanti
La recente intesa Stato-Regioni sulle caratteristiche previste per i centri riabilitativi degli uomini maltrattanti è stata criticata dalle associazioni di donne, che si occupano del contrasto alla violenza di genere.
Martedi, 27/09/2022 - Nello scorso novembre fu reso pubblico il nuovo Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne per il triennio 2021-23, presentato dalla ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti e passato in Conferenza unificata Stato–Regioni. Tale Piano si confermò quale rispettoso del precedente piano triennale, ma nel contempo ne migliorò alcuni aspetti. Difatti ne preservò i quattro assi fondamentali antecedenti, ossia la prevenzione, la protezione e il sostegno delle vittime, la punizione dei colpevoli e l’assistenza e la promozione, introducendo però alcune specifiche linee di intervento. Come, ad esempio, il contrasto alla violenza economica con la previsione di corsi di alfabetizzazione finanziaria, tirocini retribuiti e norme per favorirne l’inserimento lavorativo, perseguendo l’obiettivo finale di realizzare l’empowerment delle donne vittime di violenza di genere.
Lo scorso 14 settembre, nel solco del suddetto Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-23, si è avuta la approvazione da parte della Conferenza unificata di “criteri omogenei a livello nazionale mediante l’individuazione di requisiti minimi dei centri per uomini maltrattanti”. Tali criteri necessitavano, visto che le Regioni, nonché la Province autonome di Trento e Bolzano avevano già predisposto autonomamente interventi volti a “favorire il recupero degli uomini autori di violenza domestica e di genere”. Tale intesa tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome prevede, peraltro, anche il riparto delle risorse per l’istituzione e potenziamento dei correlati centri di riabilitazione. Presupposto normativo alla legittimazione della nascita di tali centri è stata in Italia la legge definita Codice rosso, ossia la n. 69/2019, che all’art.6 recita: “Nei casi di condanna per i delitti di cui agli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612-bis nonché agli articoli 582 e 583-quinquies nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati”.
Anche la “Relazione sui percorsi trattamentali per uomini autori di violenza nelle relazioni affettive e di genere”, approvata il 25 maggio 2018 dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, ha previsto che: “Coloro che agiscono violenza contro le donne tendono ad atti aggressivi sempre più gravi e, in assenza di un intervento, recidivano nell’85 percento dei casi; di conseguenza, coloro che riescono a ritrovare autonomamente senza aiuti un equilibrio dopo un primo episodio di violenza sono una minoranza esigua.[…]Per raggiungere l’obiettivo di interrompere i comportamenti violenti, i servizi resi dai Centri per gli uomini autori di violenza devono rappresentare, nel quadro di un sistema di intervento basato su strategie di lavoro di rete, un valore aggiunto a disposizione dell’approccio integrato alla violenza maschile contro donne”.
Nell’immediatezza dell’approvazione della suindicata intesa istituzionale si sono mosse varie realtà associative, che operano da decenni nel contrasto alla violenza di genere, per richiedere un tavolo di revisione volto a modificare l’intesa sui requisiti minimi previsti per i C.U.A.V (Centri per Uomini Autori o potenziali autori di Violenza di genere), come sono ora definiti. Si sono attivate al proposito la Fondazione Pangea Onlus, l’Associazione Nazionale Volontarie Telefono Rosa, l’UDI - Unione Donne in Italia, Reama - Rete per l'Empowerment e l'Auto Mutuo Aiuto, l’Associazione Nosostras e la UIL - Unione Italiana del Lavoro. Tali associazioni rimarcano che “Sono molte le perplessità e i punti critici di cui chiediamo la modifica: mancato rispetto di quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul in termini di protezione della donna e dei minori rispetto al percorso di autonomia dal maltrattante, sbilanciamento tra Cav e C.U.A.V nell’erogazione dei finanziamenti in relazione all’impegno richiesto di tempo e al numero degli accessi effettivi avuti solo per dirne alcuni. Denunciamo il rischio della mediazione familiare, fatta passare all’art. 6 come “Sicurezza della vittima” a protezione per le donne ma che in realtà lascia aperto uno spiraglio di “contatto con il partner” maltrattante che non può sussistere nei casi di violenza come richiesto dalla Convenzione di Istanbul”.
Anche la rete D.i.Re, Donne in rete contro la violenza, ha immediatamente espresso preoccupazioni soprattutto, su "i requisiti minimi dei Centri per Uomini Autori di Violenza, che conferiranno legittimità di azione a realtà che nel territorio nazionale operano ancora in maniera limitata e sul cui lavoro non esistono ancora ricerche e dati strutturali relativi alla loro efficacia. La maggiore criticità su cui i Centri antiviolenza non sono stati ascoltati riguarda il contatto diretto dei C.U.A.V. con le donne vittime di violenza, nel tentativo che finisce, di fatto, per mettere in atto quella mediazione vietata dalla Convenzione di Istanbul". Comune a tutte queste associazioni è la richiesta di effettive responsabilità dei C.U.A.V al riguardo dei percorsi che svolgono con gli uomini maltrattanti, di modo che ne rispondano rispetto alla loro reale efficacia, sia per numero di accessi che per i risultati raggiunti sul lungo periodo. “Per questo chiediamo subito di essere convocate intorno a un tavolo di revisione dei criteri per evitare l’approvazione di un documento che minerebbe l’autonomia del percorso di uscita della violenza delle donne e il lavoro dei Centri Antiviolenza”.
Il dott. Fabio Roia, Presidente Vicario del Tribunale di Milano, relativamente ai corsi per uomini maltrattanti così come sono tenuti in Italia, ha citato il caso di Juana Cecilia Hazana Loayza uccisa nel novembre 2021 dal suo compagno maltrattante, peraltro già condannato per atti persecutori nei confronti della donna. A lui la pena era stata ridotta a due anni con la condizionale, perché aveva accettato di frequentare gli incontri di un centro di recupero per uomini maltrattanti. Le idee del magistrato su questi corsi sono molto chiare: gli uomini violenti non devono essere mandati nei centri “in maniera convenzionale e solo per ottenere benefici sul piano giudiziario ma ci vogliono sentinelle di controllo da parte degli operatori per far sì che i soggetti prendano consapevolezza che la violenza contro le donne è una stortura del comportamento. Solo quando si acquisisce questa consapevolezza- ha spiegato il magistrato- diminuisce il rischio di recidiva”.
Nello scorso mese di giugno abbiamo assistito al rimpallo di responsabilità al proposito di un duplice femminicidio avvenuto a Vicenza per mano di un uomo, che non si trovava in carcere per i suoi crimini perché aveva frequentato un corso riabilitativo. La contesa era tra i magistrati vicentini, coinvolti nella decisione di lasciare libero il femminicida, ed il centro Ares, il Centro per l'ascolto e il cambiamento di uomini autori di violenza, che lo aveva preso in carico. Qui l’uomo tenne 20 colloqui della durata di 50 minuti, in ottemperanza da quanto disposto dal Codice rosso, la legge che dal 2019 ha modificato la disciplina penale e processuale della violenza domestica e di genere, ottenendo la sospensione condizionale della pena. Proprio tale vicenda appalesa la necessità che per i corsi di recupero per uomini maltrattanti siano adottate linee guida a carattere scientifico meno dubbie per evitare che essi possano tradursi in “scorciatoie” atte a scongiurare di pagare per le proprie colpe. Linee guida che non facciano essere tali corsi quali dei contatori di incontri basati su non meglio definiti protocolli europei, in modo che specifici criteri oggettivi consentano di leggere meglio le indoli degli autori di violenza di genere, prima di certificarli come svolti "con puntualità e sincero coinvolgimento", come è successo per il femminicida in questione.
Di suddetti criteri oggettivi nella recente Intesa Stato-Regioni sui C.U.A.V. pare che non vi sia ombra, si scrive invece dei loro specifici obiettivi, dei requisiti strutturali ed organizzativi, delle qualifiche del personale, delle prestazioni minime garantite, ma come recita il testo dell’intesa ”Il CUAV può attestare che l’utente ha intrapreso ovvero concluso un programma. Tale attestazione non ha valore di valutazione del programma e/o del cambiamento effettivo dell’autore della violenza (art. 5, 1 punto b)”. C’è un particolare, però, degno di nota, quale quello per il quale in base alla frequentazione di tale corso il violento possa vedersi comminata la sospensione della pena, così da ritornare libero. Se il C.U.A.V. non valuta il suo effettivo cambiamento, la vittima dei suoi soprusi rischia grosso, fino alla perdita della vita. Senza requisiti tecnico-scientifici che attestino “il cambiamento effettivo dell’autore di violenza”, tanto vale destinare i 9 milioni di euro, previsti per il finanziamento di tali centri, all’acquisto di braccialetti elettronici, almeno questi presidi di sicurezza avvisano le forze dell’ordine della vicinanza del violento alla sua perseguitata.
L’appalto per fornire nel triennio 2018/21 circa 1000 braccialetti al mese, per una cifra complessiva di quasi 23 milioni di euro, fu vinto da Fastweb. Con lo stanziamento previsto per finanziare i C.U.A.V. se ne potrebbero acquistare 390 al mese, da utilizzare anche per il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, come da Codice rosso. In Europa l’uso di tali presidi appare particolarmente efficace perché consente alla donna di disporre di un’applicazione sul cellulare, che la avvisa quando la persona denunciata le si avvicina. Sarebbe conseguentemente opportuno da parte dei magistrati valutare un maggiore utilizzo dei braccialetti elettronici, congruamente finanziati, piuttosto che erogare fondi pubblici a C.U.A.V. “sul cui lavoro non esistono ancora ricerche e dati strutturali relativi alla loro efficacia”, come sostiene la rete D.i.Re, Donne in rete contro la violenza.
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