Come tutti in queste ore leggo la storia della giovane Sara raccontata dai giornali. Bruciata viva nell’auto data alle fiamme dal suo ex, a Roma. Si apprende dalle cronache che se qualcuno si fosse fermato su via della Magliana mentre Sara chiamava aiuto rendendosi conto di essere seguita dal suo assassino, se qualcuno avesse chiamato la polizia invece di ignorare quelle braccia alzate, forse Sara sarebbe ancora viva.
Credo che dopo questa tragedia le nostre parole sgomente, la nostra pena, il nostro orrore per l’ennesima vita di donna distrutta per sempre non bastino più. Come non basta la rabbia contro l’uomo assassino, di solito un ex, di solito lasciato da poco a cui si augura la stessa fine che ha inferto o la galera a vita. Né basta invocare la repressione e/o un maggior controllo delle forse di polizia come se ogni relazione tra uomo e donna potesse essere concretamente monitorata se non da chi la vive.
Purtroppo la violenza discende dalle asimmetrie di potere ancora esistenti tra i sessi. Pur con le dovute differenze, ancora in ogni parte del pianeta, le donne sono, quando va bene più povere, meno occupate, meno rappresentate, quando va male morte ammazzate, o sposate da minorenni, o abusate durante le guerre o lungo il viaggio pericolosissimo che le porterà in Europa.
Quello che forse dovrebbe cambiare è dunque la nostra percezione della violenza contro le donne. Non solo quella che sfocia negli atroci femminicidi come quello di Sara, o quello già archiviato ma freschissimo di Firenze che il Corriere della sera aveva definito nell’occhiello un “chiarimento finito male”.
Occorrerebbe partire dal riconoscimento e dalla consapevolezza dei micro-machismi, dalle esperienze diffuse di sessismo quotidiano, da tutti i casi e gli ambiti della vita in cui una donna è attaccata in quanto donna e nella sua autodeterminazione. La violenza infatti appare come figlia non del raptus o della pazzia, ma del sessismo, complesso fenomeno ben radicato e camaleontico, capace di cambiare di colore al variare delle situazioni, mimetizzandosi. Di rendersi persino impercettibile mescolandosi all’aria che respiriamo tanto che a volte occorre avere il naso allenato per individuarlo come la vera causa di diseguaglianze e violenze.
Però è proprio di sessismo che è fatta la cultura in cui siamo immersi e in cui nuotiamo con la stessa indifferenza che hanno mostrato gli automobilisti che non si sono fermati vedendo le braccia alzate di Sara. E sebbene appaia evidente che non esistono soluzioni rapide e immediate contro la violenza sulle donne, la difficoltà di scardinare un sistema dominante non può certo ridurci all’immobilità.
Che fare? Continuare la rivoluzione femminista, iniziata da ancora troppo poco se si considera il tempo della Storia. Pretendere dalle Istituzioni che si investano risorse nei centri anti-violenza nati dal sapere delle donne e nell’educazione sessuale e affettiva dei giovani e giovanissimi di ogni scuola del centro e della periferia. E come collettività si potrebbe provare a essere più informati e consapevoli, sforzandoci a riconoscere la violenza ben prima che si manifesti, pensandola come una variabile più che possibile all’interno di una relazione uomo-donna (ma ovviamente non solo in una relazione eterosessuale), e diventando così in ogni luogo che frequentiamo degli e delle attivisti/e.
Condividendo saperi, fornendo letture critiche della realtà, costruendo relazioni paritarie, e, nei casi concreti, riuscendo a dare informazioni concrete, nomi di centri e di esperti/e, a chiunque si trovi ad affrontare una situazione di violenza, latente o palese. E più semplicemente, smettendo di pensare ai casi di violenza come episodi isolati e che non ci riguardano.
Sull’onda emotiva che le storie come quella di Sara suscitano in me – che come tante sarei potuta essere una vittima di femminicidio - mi tornano in mente due storie accadute altrove alcuni mesi fa. Quella di Farkhunda, lapidata e poi bruciata vicino ad una moschea a Kabul da una folla inferocita che la accusava ingiustamente di avere oltraggiato alcune copie del Corano e quella di Ozgecan Aslan che venne brutalmente assassinata in Tuchia da un autista che aveva provato a violentarla. In entrambi i casi i loro corpi nelle bare vennero trasportati a spalla da altre donne: una reazione pubblica alla ferocia, quasi a dire che il silenzio e l’indifferenza uccidono due volte e che, al contrario, è necessario farsi carico del cambiamento, raccogliendo le forze e contrastando l'assuefazione, l’esasperazione e il dolore causati dalla violenza degli uomini contro le donne.
E noi siamo pronti e pronte a metterci questa lotta sulle spalle?
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