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Dove la verità è nuda

Dove la verità è nuda

Poesia / Fabiana Frascà - Una poesia del disincanto e di ricerca, non esente dall’esperienza del dolore.

Benassi Luca Lunedi, 31/03/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2014

 Di Fabiana Frascà avevamo già avuto occasione di occuparci su queste pagine nel numero di luglio-agosto 2010, presentando “L’Oscuro centro”, opera di esordio della poetessa napoletana. Si trattava di una poesia dai tratti spiccatamente erotici, fatta di anima e corpo, spirito e materia della carne viva e palpitante, capace di cogliere il lettore nell’incandescenza della lingua dell’eros, nell’azione e nella materialità di una fisicità naturale, esposta con un certo grado di libertà e ironia. Il nuovo lavoro, “Aporia delle scorie”, pubblicato da Giulio Perrone editore con la prefazione di Antonio Spagnuolo e una nota di Letizia Leone, marca un radicale cambio di segno in questa scrittura, la quale si volge alla riflessione e al disincanto. Letizia Leone chiama in causa la waste land di Thomas Eliot, il cui paesaggio desolato e frammentario era espressione della rovina e della resa di un secolo che bruciava nell’incendio dei suoi fasti e dei suoi orrori. Lo stesso tessuto è rinvenibile nei versi di Frascà, dove alla dimensione epigrafica e catastrofica si sostituisce una quotidianità domestica e disadorna, devastata negli affetti, tradita nei sentimenti. Se rimane la fisicità esuberante degli esordi come strumento di conoscenza, questa è oggi rivolta alla dimensione del dolore, al cibarsi di scorie per cercare in queste il nutrimento di una possibile normalità. Vi è nella scrittura di Frascà una tensione etica capace di trascendere il personale per rappresentare un’epoca, una crisi (economica, politica, dei valori), senza necessariamente prendervi una posizione, senza reclamare un ruolo di giustizia, ma ponendosi solamente alla ricerca di una verità nuda, finalmente senza menzogna. Si veda l’ultimo testo nel quale la resa è quella «di discorsi lasciati inerti al sole/ ad asciugare, naufraghe, le guerre»: una poesia del disincanto, verrebbe da dire, ma soprattutto una poesia di ricerca, di riflessione profonda, espressione di una maturità umana e letteraria non esente dall’esperienza del dolore. Rimane della scrittura degli esordi quella naturalità della forma chiusa, spesso declinata nel sonetto, che si abbevera di endecasillabi e settenari cristallini, immediati, segno di una metrica affatto studiata, ma che è il modo di respirare e muoversi di questa autrice. Ne emerge una lingua snella, duttile, in grado di farsi affilata quando deve incidere nella metafora atroce di una quotidianità devastata. Il risultato è una poesia necessaria, generosa, che si fa ricordare. 



Granuli




Che bello sentire la colpa

granello sottile, minuto,

racchiuso baccello che gravida

nuove parvenze più losche

più cupe di pesti, che prive

d’onore, poi seguono il flusso

ad imbuto del senso fottuto

che impolpa ogni brodo di mondo

e gira sull’asse di scorno, velluto

che scorre nel sangue per burla

o per gioco sul filo di scolo che

vomita ancora certezze in un bolo.





Statua




Se non fossi che pietra, un granito

stabile e fisso io saprei quelle braccia.

Ma non ha carne la pietra, né fiori.

Non conosce la terra, gli odori.

Sa imitare soltanto nel tatto,

simulare in quel freddo contatto

parvenze di mani di bocche di denti.

Inventarsi in un simulacro

un’anima dura. Necrotica e pura.





Graffiti




Tutto trattenuto senza alcuna pena

nel sangue. I dolori cutanei, i fori

degli aghi, i tagli di lame. Tenerli

nel sangue o in quel poco che n’esce

è come averli nel cavo delle mani,

riceverli, amarli, per quanto strazio

dica quel rosso aggrumarsi. Un solco

di parole in una fossa. Un graffito.

Ami, sorridi da morto, e la tua misera

sindone è il murales di quel tratto

extraurbano della metropolitana.





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