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Dove la speranza ha trovato Casa

Dove la speranza ha trovato Casa

Viaggi svelati - Incontro con Sharla Musabih, nel centro antiviolenza da lei fondato a Dubai

Marzia Beltrami Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2006

Sharla Musabih, la fondatrice del centro antiviolenza di Dubai, è una incontenibile americana con tante storie da raccontare e un’anima generosa. Dal punto di vista personale è un esempio incredibile di integrazione di due mondi lontanissimi: a 18 anni negli Stati Uniti incontra Hassan Musabih, cittadino di un villaggio di Dubai, dopo pochi mesi sono fidanzati e poi sposati, hanno il primo figlio. Sharla lascia la sua agiata vita americana, salta su un aereo e arriva nella Dubai degli anni 80, la Dubai dei pescatori, della vita semplice e delle case modeste. Segue i consigli di sua madre, 'se vuoi che il tuo matrimonio funzioni e vuoi vivere nel paese di tuo marito, devi adeguarti alla loro cultura, comportati come loro, non creare caos in casa'.
E così lei fa: sforna 6 figli che oggi hanno dai 5 ai 24 anni, si converte all’Islam e in pubblico indossa l’abito nero e il velo delle Emiratine. Eppure questa donna è una vera ribelle, ‘l’unica vera femminista della penisola Arabica’, come si auto definisce.
Negli anni 80, assieme alle poche altre mogli occidentali di uomini Emiratini allora residenti a Dubai, crea un network di beneficenza per persone in difficoltà.
Presto le autorità cominciano a contare su di lei. Nel 1991 la polizia le chiede di trattare un caso di violenza domestica. A Dubai mancavano completamente strutture sociali di supporto a vittime di violenza o del traffico di essere umani, quindi nel 2001 Sharla fonda ‘City of Hope' (La Città della Speranza), un rifugio che accoglie donne e bambini che hanno disperatamente bisogno di una via d’uscita, di un briciolo di speranza e di supporto economico.
L’associazione non solo fornisce gratuitamente un tetto e cibo a donne che hanno deciso di rompere il cerchio della violenza, ma anche assistenza legale gratuita, psicoterapeuti, life coaching, educatori per i bambini, training professionale e tutto quello che può servire per ripartire da zero.
Dal 2001 City of Hope è cresciuta. Oggi circa 90 tra donne e bambini risiedono in 3 ville in luoghi segreti della città e ogni giorno Sharla riceve una o due chiamate da parte di donne che hanno bisogno di consigli e supporto – il suo numero di telefono circola in tutti gli Emirati e lei risponde personalmente a tutte le richieste. La villa 67 è semplice, ma accogliente. Avrebbe bisogno di manutenzione, ma i fondi vengono dirottati verso cose più importanti. Nella casa incontro Arwa, una quindicenne giordana in conflitto con i suoi genitori: lei studia in America e la famiglia invece la vorrebbe trascinare indietro, dentro i confini sicuri della vita tradizionale. 'Gli omicidi di onore - mi dice Sharla - sono pratica comune in Giordania'. Poi arriva Layla, una ragazza dal volto raggiante che ha appena lasciato il centro e sta ricominciando a vivere; ha portato un telefono da prestare a Arwa e vuole tanto salutare Sharla: ha una luce incredibile negli occhi, è bellissima. I casi che Sharla vede quotidianamente sono dei più svariati e trascendono l’appartenenza religiosa, culturale, nazionale. Donne occidentali, asiatiche, arabe, africane, musulmane, cristiane, hinduiste, in rappresentanza della popolazione di questo paese in cui l’80% è composto da immigrati da più di 150 paesi diversi; le statistiche perdono importanza davanti al fattore che unisce tutte le residenti del centro: uomini e dinamiche violente da cui fuggire. Molte delle donne che si rivolgono a lei sono vittime della violenza dei propri mariti o padri, la psicologia della vittima è probabilmente uguale in tutto il mondo: le donne resistono e giustificano fin che possono, sopportano le botte, cercano di assorbire il conflitto, fino a quando sentono che la loro vita, o quella dei figli, è in pericolo e non possono fare altro che andarsene. Scelta sofferta. In media una donna lascia il marito violento 7 volte prima di prendere la decisione di abbandonare la casa definitivamente.
Il sistema sociale degli Emirati Arabi non aiuta: a una donna che si rivolge alla polizia in caso di violenza domestica, viene fornito poco aiuto, una specie di riconciliazione con il marito a cui viene fatto firmare un foglio in cui si impegna a non usare più violenza nei confronti della moglie. Spesso il marito, dopo aver subito questa umiliazione pubblica, scarica la sua rabbia sulla moglie ancora più intensamente.
Con ammirazione e un sorriso divertito, immagino Sharla negli uffici di alti funzionari a pestare i piedi, a cercare soluzioni per aggirare e sfidare e infine cambiare leggi o tradizioni obsolete e maschiliste. Lentamente li ha portati dalla sua parte e dove la legislazione è ancora carente, ha imparato a intervenire con il buon senso e l’astuzia.
Quindi il marito violento e abbandonato sosterrà in tribunale che sua moglie è scappata con l’amante, cosa che è punibile per legge. Sharla invece avrà già mandato una lettera alla polizia dichiarando che la vittima è sua ospite, così che non ci siano dubbi sulla sua moralità.
La violenza famigliare non è l’unico problema con cui Sharla si misura. Il centro ospita spesso aiutanti domestiche che vengono schiavizzate o abusate sessualmente dal proprio datore di lavoro. Oppure ragazze vittime della tratta delle bianche: convinte di venire a fare le cameriere o le commesse, tantissime ragazze vengono fatte entrare nel paese, avviate alla prostituzione e tenute in schiavitù. Sharla stessa si è infiltrata nelle fattorie dove bambini piccolissimi vengono schiavizzati e usati come fantini per le gare di cammelli e ha preparato un rapporto per il governo che ha prontamente coinvolto l’Unicef.
Una volta arrivate a 'City of Hope', molte donne non vogliono altro che tornarsene nel loro paese e dimenticare. Altre cercano di acquisire competenze spendibili nel mondo del lavoro per poter diventare indipendenti. Alcune invece decidono di tornare a casa dal proprio marito, nella speranza di avergli dato una lezione e che la violenza non si ripeta più.
Quando chiedo a Sharla come fa a trovare i soldi per mantenere 3 centri, scrolla le spalle: “I soldi arrivano, di questo non mi preoccupo. Se apro il frigo e vedo che il cibo scarseggia, mando un paio di sms e il giorno dopo il cibo arriva”.
Sharla ha creato anche ottime relazioni con i media sia locali che globali: i giornali di Dubai trovano sempre spazio per le sue storie e anche la BBC ha fatto un programma sulle attività del centro. La rete di chi offre aiuto si allarga a macchia d’olio, ma City of Hope e Sharla in persona sono sempre in allerta. Infatti qualche mese fa un religioso islamico ha apertamente attaccato il centro dicendo che “se ogni donna che viene picchiata dal marito venisse incoraggiata a ribellarsi, la santità del matrimonio sarebbe in pericolo”. Capita che mariti infuriati irrompano nel rifugio e ne sconvolgano la pace per riprendersi con la violenza mogli e figli. Sharla è stata inseguita e minacciata tante volte.
Nel futuro del centro Sharla vede finalmente una licenza governativa – ancora questa non gli è stata garantita – e forse la possibilità di ‘andare in pensione e lasciare la gestione del centro, ma c’è ancora tanto da fare.
Usciamo in giardino e Saood, 3 anni, ci segue con occhi spalancati e tristi: scopro di aver letto la sua storia pochi giorni prima sul giornale. Suo padre, scomparso da mesi, è stato finalmente ritrovato, pare, in una prigione in Uzbekistan. Cerco inutilmente di farlo sorridere ma non c’è verso, non emette nemmeno un suono, rimane muto a guardarmi. Arriva Ahmed, 7 anni, e mi si butta addosso. Non parliamo nemmeno la stessa lingua e si abbandona nelle mie braccia in cerca di affetto. La realtà di questo luogo comincia a toccarmi dentro, prometto di tornare e portate bimbi e mamme al parco a fare una passeggiata. Sharla mi accompagna al cancello, coperto da asce di legno per impedire a curiosi e malintenzionati di guardare dentro. Ci sono dei buchi e le ragazze li hanno tappati con pezzi di carta. Sharla borbotta: ‘Dovremo mettere un cancello nuovo’. Già, c’è ancora tanto da fare.

(Info e contatti: marzia.beltrami@gmail.com)
(10 dicembre 2006)

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