Mongolia / 1 - Il 60% dei diplomati delle scuole superiori e il 75% del personale delle principali istituzioni sono donne, che si rifiutano di sposarsi
Cristina Carpinelli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2006
La Mongolia è collocata al centro del continente asiatico tra la Russia al nord e la Cina per la restante parte. Grande tre volte la Francia, è un paese arido e povero di corsi d’acqua ma con una varietà di ecosistemi naturali. Quasi un terzo del paese, al sud, è occupato dal deserto del Gobi e circa la metà dei due milioni e mezzo di abitanti è nomade. Tuttavia, a differenza dei nomadi del Sahara, quelli mongoli non sono organizzati in tribù, ma per nuclei familiari estesi, la cui vita ruota attorno alla ger (la tenda in feltro di forma circolare).
Nel dopoguerra, i russi tentarono di trasformare la Mongolia in un paese industrializzato. In cambio di rame, grano o frumento impiantarono fattorie ed edificarono le città capitali di Aimag (province). La costruzione della ferrovia transmongola, che attraversa il paese da nord a sud e che collega la Cina con la Russia diede grande impulso alla modernizzazione, poiché prima di allora in Mongolia non si conosceva altro mezzo di trasporto che non fosse quello animale. La trasformazione industriale si accelerò nel 1962 quando questo paese divenne membro del CMEA. Ne conseguì che altri paesi facenti parte del blocco comunista installarono qui nuove industrie ricevendo in pagamento i prodotti finiti.
Dall’esperienza sovietica, la Mongolia ne ha ricavato il passaggio da un’epoca feudale ad una moderna, con un sorprendente tasso d’alfabetizzazione (98%), il più alto in Asia dopo il Giappone. Questo passaggio è stato segnato da grandi balzi in avanti (la sostituzione della famiglia patriarcale dai tratti asiatici con una struttura familiare che non fosse in contraddizione con la più ampia rivoluzione in atto nei rapporti economici e sociali, l’estensione del diritto di voto alle donne nel 1929 e il loro ingresso nel mondo del lavoro) con una crescita industriale e agricola avviata negli anni ’50 che ha stravolto modi di vita radicati nei secoli, ma anche da campagne cruente come quelle contro la libertà di stampa e di religione, quest’ultima in nome dell’affermazione dell’ateismo di Stato e dell’abbattimento della casta privilegiata dei lama (l’“aristocrazia mongola”).
Dagli inizi degli anni ‘90, con la caduta dell’Urss, sono cessati gli aiuti economici esterni. Dopo la fase della democratizzazione, la Banca mondiale e il FMI hanno considerato la Mongolia un laboratorio ideale (è il paese asiatico meno densamente popolato) per l’esperimento neoliberista. Una terapia shock ha fatto sì che fosse privatizzata l’intera economia in poche settimane. I risultati iniziali sono stati disastrosi soprattutto per i nomadi, privati dei servizi gratuiti, che sono emigrati in gran numero ai margini dei centri urbani con le loro ger, costituendo delle enormi bidonville. Nella capitale mongola, Ulaan Baatar, che possiede l’aspetto di una trascurata città europea degli anni ’50, i veicoli giapponesi stanno celermente sostituendo i vecchi furgoni sovietici, ma le mucche gironzolano ancora per le strade, le capre rovistano nell’immondizia e le persone nei loro costumi tradizionali si mescolano per le vie della città con i nuovi ceti ricchi del paese. Inverni gelidi seguiti da estati torride hanno fatto, inoltre, coincidere il passaggio alla “democrazia” di mercato con morie di animali, portando il paese sull’orlo della carestia. Una situazione disperata se si tiene conto che circa la metà della popolazione vive nelle zone rurali allevando bestiame, che rappresenta la principale forma di sostentamento, e che il collasso delle industrie statali ha obbligato molti lavoratori a riconvertirsi all’agricoltura, raddoppiando il numero dei pastori. Il problema della desertificazione e della degradazione dei pascoli è ulteriormente aggravato dallo sfruttamento eccessivo del suolo, soprattutto per via dell’estrazione dell’oro, il cui libero accesso al mercato globale ha significato per questo paese l’ingresso nel WTO senza, tuttavia, ottenere vantaggi, dato che ciò non è bastato ad evitare l’espandersi nel paese di miseria e carestia su vasta scala. L’economia mongola vive, inoltre, sulle miniere di rame e sul cashmere, quest’ultimo minacciato dal dumping cinese nella rincorsa interimperialistica dei paesi emergenti alla conquista dei mercati internazionali.
L’avvento del capitalismo ha divelto le ultime tracce tradizionali e strutturanti l’identità mongola, che erano nonostante tutto sopravvissute ai 70 anni di socialismo realizzato. Sul piano sociale, la privatizzazione, introducendo la trasmissione per via ereditaria dei beni di proprietà privata, ha significato la disgregazione delle famiglie allargate, poiché i loro componenti gestivano le terre nazionalizzate, allevavano bestiame e commerciavano in comunità, costituendo un’unica economia indivisa. Attualmente il 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e la disoccupazione, l’alcoolismo e la violenza sono dei flagelli sociali. Questa situazione ha avuto gravi ripercussioni soprattutto sugli uomini. La neo associazione mongola Men’s Union ha denunciato la profonda crisi d’identità che ha colpito i maschi del paese. Sempre più donne indipendenti e con buona formazione (le statistiche indicano che il 60% dei diplomati delle scuole superiori e il 75% del personale delle principali istituzioni sono donne) si rifiutano di sposarsi. Quest’inversione di genere è un fenomeno che non ha precedenti nella storia della Mongolia, che conta ben 49 associazioni femministe e 111 Ong legate alla famiglia. Per Ayush, docente di scienze sociali all’università di Ulaan Baatar, “la Mongolia non è mai stata una società patriarcale classica. L’uomo occupava una posizione dominante nella società nomade, ma riconosceva alle donne un ruolo importante. A differenza delle famiglie a fissa dimora, la cui organizzazione del lavoro richiedeva la rigida divisione dei compiti domestici ed extra-domestici, in quelle nomadi questa divisione non era necessaria”. “Dopo l’implosione dell’Urss, le donne - spiega Ayush - hanno saputo far fronte all’abolizione dell’economia di piano, cercando di cogliere le opportunità offerte dalla nascente economia di mercato, lanciandosi in investimenti ed integrandosi da protagoniste negli affari del paese. Alcune di loro si stanno affermando nel management pubblico e privato delle ITC. Gli uomini hanno, invece, preferito emigrare, inseguendo il miraggio di un futuro migliore in altri paesi, e quelli che sono rimasti si trascinano in una vita vacua, mentre mogli e compagne si rimboccano le maniche e mandano avanti la baracca”. “Specialmente la violenza - sostiene la psicologa Oyunsuren - è l’aspetto che più preoccupa della società mongola, e i suoi effetti si ripercuotono in particolare sulle donne. Mentre nelle società occidentali la gente è abituata al dialogo, in Mongolia, gli uomini alzano le mani per risolvere qualsiasi controversia familiare”. “Il problema - aggiunge Selenge, ricercatrice storica - è in parte riconducibile alla scarsa educazione presente nelle ultime generazioni. Dopo il crollo sovietico, le famiglie hanno preferito far proseguire gli studi alle figlie e mandare a lavorare i maschi”.
La recente apertura al mondo esterno sottopone la società mongola a spinte diverse. La ricerca di un’identità che accompagna l’autonomia ritrovata favorisce, come altrove, un “ritorno alla religione”. Ma a differenza che altrove, qui la religione, epurata dalle brutali pratiche tantriche (es: esportazione di ossa da corpi vivi di giovani donne vergini per costruire strumenti musicali utilizzati con lo scopo di aiutare l’oracolo a conseguire la sua suprema iniziazione) in uso ancora agli inizi del XX secolo presso i monasteri mongoli, ha una funzione sociale positiva. Se è vero, infatti, che una parte della vecchia nomenklatura del paese, fedele al marxismo-leninismo, è entrata a far parte della casta “riabilitata” e intoccabile dei lama, lo sciamanismo mongolo, in simbiosi con il buddismo, predicando la nonviolenza e la compassione ha un effetto benefico sul rispetto delle diversità (compresa quella di genere), in un momento in cui la società è atomizzata e lacerata da conflitti interni. Il film del 2003 Il cammello che piange del regista mongolo Byambasuren è stato un successo internazionale. Esso rilancia l’idea di uno sciamanismo “buddhizzato” come parte integrante dell’ethos mongolo. Il cammello che piange è la storia di come una famiglia di nomadi del deserto del Gobi riesce a fare accettare un cammello bianco alla propria madre (una cammella bruna) che lo rifiuta, attraverso dei rituali sciamanici.
(10 dicembre 2006)
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