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Dorothea Lange e le altre. Le grandi madri in mostra a Milano

Dorothea Lange e le altre. Le grandi madri in mostra a Milano

La Grande Madre, esposizione ideata e prodotta a Milano dalla Fondazione Trussardi, indaga le rappresentazioni della donna e della maternità nelle arti del Novecento. Attraverso le opere di artiste internazionali, in scena il potere generativo.

Lunedi, 14/09/2015 -
Milano. Il volto segnato dalle rughe poggiato sulla mano nodosa. Lo sguardo assente e i capelli raccolti. A incorniciare il volto di donna, due bambini che sono due figli. È la migrant mother, la celebre fotografia scattata da Dorothea Lange a Nipomo, California, nel 1936. Eppure, l’immagine non potrebbe rivelarsi più attuale. Potrebbe essere stata raccolta sul fronte ungherese o sull’isola di Kos. A Ventimiglia o a Calais. È sufficiente per parlare di una migrazione. Per raccontare la storia di una madre e un’etica dei gesti della cura.



La rappresentazione della maternità è il file rouge dei lavori esposti al Palazzo reale: attraverso oltre 400 opere di 139 artiste, La Grande Madre racconta le iconografie dell’essere materno nei suoi simbolismi e contraddizioni. Perché, scrive il curatore Massimiliano Gioni, «l’immagine della maternità che traspare da questa mostra è assai distante da quella zuccherosa alla quale ci ha abituato la retorica visiva dei media e della pubblicità, o da quella ancora più consolatoria della propaganda nazionalista dei regimi totalitari. Nella storia dell’arte moderna e contemporanea, infatti, la maternità appare costantemente messa sotto attacco».



In un allestimento di 2000 metri quadrati organizzato in 29 sale si ricostruisce un’estetica dell’essere materno, un racconto che segue in ordine gli eventi restituendo i cambiamenti dei punti di vista. La narrazione, infatti, non può che essere trasversale; da una sacralità del potere generativo si arriva fino alla contestazione della maternità perché imposizione, e non scelta, rivendicata dalla generazione di artiste degli anni Sessanta e Settanta. Che la libertà del corpo, e la ricerca di nuove forme della sessualità, diventi nell’arte il segno di una pratica politica è evidente nei lavori di Ana Mendieta, Annette Messager, Judy Chicago, Eva Hesse – autrici di un nuovo vocabolario delle forme, contestatrici dell’immagine che identifica nel corpo le forze generative della terra e della natura – e di Carla Accardi, Joan Jonas, Mary Kelly, Yoko Ono, Martha Rosler, che svelano lo spazio della casa come luogo di soprusi, quindi denunciano la divisione dei ruoli e del lavoro.



E il surrealismo, il dadaismo e le avanguardie futuriste. Le figure femminili sono esplorate in ogni loro rappresentazione simbolica. Nella consapevolezza degli stereotipi, e dei miti, pure lasciati dalla storia dell’arte: «spero che la nostra mostra racconti l'emergere di visioni più complesse e ricche – ha dichiarato il curatore – Mi sono soprattutto chiesto se e quanto fosse legittimo parlare di madri e donne, come se appunto essere donna fosse sempre necessariamente collegato alla maternità. Gran parte della mostra, soprattutto nelle parti concentrate sull'inizio Novecento, racconta di donne che cercano di sfuggire alle aspettative opprimenti proiettate su di loro dalla famiglia, dalla tradizione, dallo Stato».



Bastano alcuni dei nomi proposti a mostrare come i ruoli sono già ribaltati. Frida Khalo, Dora Maar, Louise Bourgois: la prima, il segno di un’emancipazione visionaria delle Americhe latine; la seconda, la fotografa oltre Picasso; Louise Bourgois, l’autrice di un nuovo simbolismo mitologico. E ancora Sherrie Levine, Lee Lozano ed Elaine Sturtevan, creatrici di processi che sovvertono le gerarchie tradizionali attraverso alternative modalità di produzione e fruizione delle immagini. Con loro, il corpo diventa centrale, non più l’oggetto osservato ma lo sguardo che osserva e crea.



Foto: Dorothea Lange , Migrant mother

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