La lucida analisi nell'editoriale di Agnese Pini, direttora de La Nazione, del 3 gennaio 2021
Firenze, 3 gennaio 2022 - E dunque è il momento di una donna presidente della Repubblica, come chiedono le intellettuali che in questi giorni ne hanno fatto un manifesto? Certo, certo che è il momento. Io lo spero profondamente, strenuamente.
Ma è un “momento” talmente esausto e abusato da suonare vuoto. Molti anni fa sarebbe già stato il momento: Nilde Iotti nel 1990 diceva che era il momento. Nel 1990! E invece il momento è invecchiato, lo abbiamo perso senza capacità (o volontà? Credo volontà) di coglierlo.
Allora che cosa è successo in questi trenta (trenta!) anni, da Nilde Iotti a oggi? È successo che non abbiamo costruito - questo Paese non ha costruito - le fondamenta solide per rendere quel “momento” molto più di un momento: per renderlo invece una naturale possibilità, nell’avvicendarsi dei giochi talvolta virtuosi talvolta perversi del potere economico, politico, istituzionale.
Di chi è la colpa? In tal caso ugualmente di uomini e donne. Una delle fatiche maggiori per le (poche) donne di potere è ammettere di avere potere, come se “potere” fosse una parola negativa, già marchiata da una connotazione perversa, e non fosse invece semplicemente quello che è: il potere è neutro (certo, poi lo si può esercitare bene o male).
Molte donne e molti uomini oggi sono convinti che una donna per avere potere debba essere la migliore (anche degli uomini): il potere che sta nell’eccellenza. È questa la gigantesca distorsione: ho sentito uomini e donne dire che le donne sono più brave, più colte, più competenti, più oneste, più virtuose, più istruite (degli uomini).
Parole vuote, parole inutili, che nella battaglia per i diritti e per il potere giocano solo contro le donne. Ammesso che siano vere, queste parole nascondono un’ipocrisia che finisce per diventare una menzogna: la lotta per il potere e la lotta per la parità, che in questo caso parzialmente coincidono, non si possono giocare sulla base dell’eccellenza.
Perché il mondo da sempre non è dei migliori, salvo eccezioni rarissime. Il mondo è dei mediocri, e anche il potere è dei mediocri. Vale per gli uomini, perché non dovrebbe valere per le donne? Non partire da questa considerazione, significa spostare l’attenzione su un tema differente, ovvero: come facciamo ad aspirare al migliore dei mondi possibili?
Ma adesso non parliamo del migliore dei mondi possibili, parliamo di come fare in modo che in questo mondo imperfetto ci sia lo stesso spazio per uomini e donne. Uno spazio che non si può limitare all’eccellenza. E posso dire una cosa che suona paradossale, o provocatoria? Meno male. Pensare che soltanto l’eccellenza abbia dignità è prima di tutto innaturale, in secondo luogo può generare distorsioni che nella storia umana hanno talvolta seminato tragedie.
Le battaglie per i diritti non si fanno guardando all’eccellenza, si fanno guardando alla base. Pensate alle grandi battaglie per i diritti nel mondo occidentale. Ne cito due: il cristianesimo, il marxismo. Il primo pensava agli schiavi e agli oppressi, il secondo agli operai. È alla base, e dalla base, che si fanno le rivoluzioni.
Chi se ne frega, dunque, se le donne sono più brave degli uomini, ammesso che siano più brave (e io non lo credo). Non è la bravura il terreno di gioco. Poi, non mi fraintendete, lo può diventare, lo deve o lo dovrebbe diventare.
Ma non per vincere una battaglia sui diritti umani: ovvero il diritto ad avere le stesse aspirazioni, opportunità, possibilità per uomini e donne. Ecco: in questi trent’anni, da Nilde Iotti a oggi, si è costruito troppo poco per la base. Si è pensato ai “momenti”, cioè ai simboli, che mirassero all’eccellenza.
Ma i simboli da soli non cambiano (quasi) mai le cose. A volte i simboli servono solo a pulirci la coscienza. Perché la domanda è questa: il nostro Paese diventerebbe davvero un Paese moderno, un Paese all’altezza dei diritti umani dei suoi cittadini e delle sue cittadine se avesse una presidente della Repubblica donna? Ovviamente no.
Avrebbe un simbolo, certo. Un simbolo di cui io, tra l’altro, sarei felicissima, perché sia chiara una cosa: meglio il simbolo che niente. Un simbolo, per di più, da scegliere in un bacino di eccellenza femminile che pullula di nomi straordinariamente adeguati per ricoprire la prima carica dello Stato.
Ma, come dicevo, l’eccellenza non è il metro di giudizio con cui si esercita e si distribuisce il potere. E quasi mai il Presidente è stato scelto sulla base della pura eccellenza, è stato invece scelto (inevitabilmente) sulla base della politica (degli equilibri, dei giochi, dei contrappesi politici).
Che è un’altra cosa. E in quella base le donne italiane ancora non ci sono, o ci sono in modo troppo tiepido, lieve, irrilevante. Questo è il problema. Ed è per questo che non dobbiamo puntare ai “momenti”, né ai simboli. Dobbiamo ritornare alla base, ricominciare da lì.
Senza imprigionarci nell’insana ossessione di dover essere “più”: più brave, più intelligenti, più oneste. Il mondo deve semplicemente essere anche nostro, delle donne, mediocri o meno che siamo. Come gli uomini. Questa è la battaglia di senso che dobbiamo vincere.
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