Dossier Badanti - Meno bambini, molti più anziani e tante donne, native e migranti, sulle quali grava ancora il peso di una società che cambia in fretta.
Daniela Ricci Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2007
Donne native e migranti, sole custodi del passato e del futuro dei nostri Paesi. Donne native che si misurano ogni giorno con i bisogni reali, espressi o inespressi, delle famiglie e degli anziani. Donne migranti, regolari o irregolari, impegnate nella cura delle nostre famiglie, che sorreggono a loro volta le loro famiglie e anziani, donne di altri luoghi, lontani da qui. La nostra società è attraversata da profondi cambiamenti che hanno reso ormai insostenibile la condizione della donna messa a dura prova da elementi di grande criticità, di ostacolo anche alla scelta del lavoro di mercato, ben delineati nell’ultimo Rapporto annuale ISTAT 2006: la distribuzione asimmetrica dei carichi di lavoro domestico, l’offerta inadeguata di servizi per l’infanzia e un sistema di welfare che non sostiene a sufficienza le attività di cura e assistenza alla famiglia.
Come cambia la società italiana
Il fenomeno demografico si è modificato nella stessa direzione in tutta Europa ma si è manifestato con particolare intensità e durata nel nostro Paese. Le migliori condizioni di vita, una maggiore attenzione alla prevenzione e il progresso della medicina, assieme a stili di vita più salutari, hanno reso l’Italia il paese più vecchio d’Europa. Le persone in età avanzata sono 11 milioni (19,5%) ma da qui al 2050 i sessantacinquenni e oltre saranno quasi 18 milioni. L’invecchiamento è fonte primaria di aumento dei rischi sociali e il suo ritmo di incremento tende ad acuire i problemi connessi alla domanda di cura, soprattutto nei riguardi delle persone non autosufficienti, circa 2,6 milioni, più dei due terzi delle quali sono anziani di 65 anni e oltre. Con l’involuzione delle politiche sociali e l’inadeguata offerta di strumenti di assistenza da parte dei sistemi pubblici, cresce nelle famiglie la difficoltà a farsi carico dell’assistenza.
In questo contesto si inserisce l’altra novità storica rilevata dal Rapporto. L’Italia è divenuta una delle mete europee privilegiate di consistenti flussi in entrata dall’estero: un fenomeno unico in Europa per la rapidità con cui si è manifestato e per l’eterogeneità dell’origine dei flussi, maggiori che negli altri grandi paesi d’immigrazione. La popolazione straniera in possesso di permesso di soggiorno valido tocca i 2,8 milioni al 1° gennaio 2006 ed è pari al 4,7 per cento del totale della popolazione residente. I due terzi della popolazione straniera provengono da 15 paesi di ogni area geografica del pianeta. Circa un terzo si distribuisce in tre differenti cittadinanze: Romania (271mila al 1° gennaio 2006), Albania (257mila) e Marocco (240mila). Seguono, con oltre 100 mila presenze regolari, Cina e Ucraina. L’88 % dei cittadini stranieri risiede nel Centro Nord ed in particolare in Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Umbria con una incidenza pari a circa il 7 % dei residenti.
Le donne migranti tra lavoro di cura e diritto di cittadinanza
I dati parlano chiaro: la responsabilità e il peso dell’assistenza e della cura alle famiglie ricade sulle donne, molte delle quali sono immigrate. Nel settore dei servizi alle famiglie gli immigrati rappresentano il 65% degli occupati e il 41% di loro è una donna. Il flusso regolare è accompagnato da un mercato clandestino nel quale si stima la presenza di quasi un milione di donne. Contrastare le presenze non regolari è l’obiettivo del nuovo contratto colf, in vigore dal primo marzo, in cui si manda finalmente in pensione la parola badante e si definiscono le caratteristiche delle assistenti familiari per dare una regolarizzazione alla loro posizione. Gli aumenti previsti dall’accordo, troppo pesanti per l’economia debole di molte famiglie che si trovano oggi per la prima volta nell’inusuale posizione di "datore di lavoro", ne hanno in parte attutito i benefici. La riduzione della clandestinità tra le assistenti familiari è l’obiettivo, oltre che del nuovo disegno di legge sull’immigrazione Amato-Ferrero che prevede ingressi fuori quota per colf e badanti, di tanti interventi locali di contrasto del mercato nero dell’assistenza a domicilio. Un mercato fatto di dipendenza, sfruttamento e precarietà, di scarsa qualificazione e discontinuità di assistenza, di condizioni di isolamento e di solitudine sia degli anziani che delle donne migranti e di difficili relazioni per i contrasti che possono insorgere nella convivenza quotidiana, di mancato riconoscimento del ruolo sociale occupato dalle famiglie e dalle donne migranti nell’assistenza agli anziani, di mancato incontro tra il lavoro di cura e gli spazi di cittadinanza. Occorre, dunque, "fare sistema" con l’obiettivo di sostenere il lavoro di cura. In risposta, il Governo ha predisposto un accordo di programma con le Regioni per la sperimentazione in ogni regione italiana di modelli efficaci di incontro tra domanda e offerta volti a dare sicurezza alle famiglie e dignità di lavoro alle assistenti familiari. Le regioni accettano di mettersi in gioco e sperimentare l’inserimento di queste figure nella rete dei servizi della non autosufficienza, confortate dalle numerose iniziative attuate in questi anni.
Le soluzioni della Regione Piemonte
La Regione Piemonte ha finanziato nel periodo 2000/2006 cinque progetti rivolti a donne occupate, finalizzati alla sperimentazione di servizi integrati per il rafforzamento delle competenze nell’area privata dell’assistenza familiare. La progettualità sperimentale ha offerto diversi elementi di innovazione, come afferma Teresa Angela Migliasso, Assessora al Welfare, Lavoro, Immigrazione della Regione Piemonte “L’azione, finanziata con 860mila euro attinti dalle risorse del Fondo Sociale Europeo per il 2000/2006, ha avuto l’obiettivo di favorire l’ampliamento e la qualificazione della professionalità degli assistenti familiari già occupati, attraverso specifici percorsi formativi, con un miglioramento dell'offerta dei servizi "di cura". Nel complesso sono stati realizzati con partner locali 5 interventi che hanno raggiunto 144 persone, di cui 140 donne e 4 uomini. Le partecipanti, in maggior parte donne, attraverso i percorsi integrati di informazione e rafforzamento delle competenze, hanno visto aumentare la consapevolezza del valore del lavoro di cura e hanno ottenuto una maggiore qualificazione della loro attività. La maggiore difficoltà incontrata è nata dalla non facile conciliazione dei tempi di lavoro e di formazione per le donne che svolgono attività lavorativa nelle famiglie. Per questo abbiamo deciso di integrare i percorsi con un’azione che consentisse di sostenere la loro partecipazione. Sono stati previsti, e qui sta l’altro elemento di innovazione, degli interventi di sostituzione, finanziati attraverso il Fondo delle Politiche Sociali, con l’istituzione di un Registro degli Assistenti Familiari. L’azione ha permesso alle donne impegnate nel lavoro di cura di farsi sostituire da altre figure per il tempo richiesto dalle lezioni”. Ma come funziona la formazione rivolta all’assistente familiare che lavora? La sperimentazione si articola in 5 progetti, promossi e finanziati dall’Assessorato alla Formazione insieme all’Assessorato al Welfare, con la creazione di percorsi modulari integrativi costruiti sulle regole della formazione professionale che rappresentano l’alternativa ai corsi annuali di formazione di base (1000 ore) per il conseguimento della qualifica per Operatore Socio Sanitario (O.S.S.), figura alla quale la Regione riconduce chi lavora presso il domicilio delle famiglie. Ogni modulo è un tassello verso il riconoscimento professionale che consente di operare nelle strutture socio-sanitarie, nelle cooperative sociali e nelle strutture per anziani. La somma dei moduli, da realizzare anche sul lungo periodo perché cumulabili come crediti formativi, deve condurre complessivamente al raggiungimento delle 1000 ore. La struttura modulare e flessibile della sperimentazione è stata pensata appositamente per favorire la partecipazione di chi svolge attività lavorativa nelle famiglie e non può sostenere un impegno di formazione a tempo pieno. Va in questa direzione anche l’organizzazione del corso di sostituzione che ha favorito in modo particolare la frequenza e l’adozione di un intervento di tutoraggio nel luogo di lavoro in alternativa al tirocino. La sperimentazione, entrata nel vivo nel 2006, si concluderà alla fine del 2007 e, se i riscontri lo confermeranno, rientrerà nelle politiche ordinarie della Regione. “Attraverso la sperimentazione si intendevano monitorare le esperienze sostenibili e livello locale e premiare la capacità del progetto di mettere insieme l’ente pubblico e le associazioni. La presenza di un ente gestore dei servizi locali ha garantito la coerenza dell’attività con le politiche di welfare a carattere locale – aggiunge Antonella Gianesin, Servizio Politiche Sociali della Regione Piemonte - facendo emergere anche altre esperienze. Nel caso del “welfare fatto in casa” la formazione può concorrere ad aiutare l’integrazione delle persone e a parificare il lavoro di cura. Ma il collegamento tra il mondo privato dell’assistenza familiare e il mondo generale dei servizi va affrontato in un quadro coordinato di politiche, facendo leva su diversi livelli congruenti che rispondono ad un disegno complessivo con l’obiettivo di rendere il lavoro di cura a domicilio un anello del welfare locale”.
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