Lunedi, 02/09/2024 - La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’assise d’appello di Messina che aveva condannato all’ergastolo l’assassino di Lorena Quaranta, giovane studentessa di medicina prossima alla laurea. Il femminicidio di Lorena era avvenuto il 31/03/2020 durante il lockdown causato dalla pandemia da coronavirus; ho raccontato la storia di Lorena nel mio libro “Parole e pregiudizi” perché la stampa dipinse la sua uccisione non come un femminicidio bensì come l’esito di un “dramma della convivenza forzata”, una narrazione che quindi esclude la responsabilità dell’uomo assassino come se non avesse coscientemente scelto di uccidere la sua compagna. «Se di solito è colpa della gelosia, ora è colpa del virus quindi, mai del patriarcato», scrissi allora. È sempre colpa di qualcos’altro, mai degli uomini, sani figli della società patriarcale in cui viviamo. Ebbene ora dobbiamo prendere atto che non solo la stampa si è lasciata trasportare dal “dramma della convivenza forzata”, ma che anche la Corte di Cassazione ha aderito a questa visione distorta annullando la sentenza della Corte d’assise d’appello nella parte in cui essa aveva escluso la concessione all’assassino delle attenuanti generiche; secondo la Cassazione nella valutazione della concessione di questo beneficio è necessario tenere conto dello stato di angosciosa inquietudine di cui apparentemente soffriva l’imputato a causa della situazione pandemica. «Trovo difficilmente accoglibili le motivazioni per attenuare la pena in ragioni che nulla hanno a che vedere con la relazione tra Lorena Quaranta e il suo assassino adducendo lo stress da pandemia covid come causa» ha dichiarato Antonella Veltri, presidente di D.i.Re Donne in Rete contro la violenza. «La nostra preoccupazione – come Rete nazionale contro la violenza alle donne – è, nella migliore delle ipotesi, che ci sia una profonda incomprensione di che cosa sia la violenza maschile alle donne anche secondo la Convenzione di Istanbul». La peggiore delle ipotesi, invece, è che la maggioranza della magistratura ignori completamente cos’è la Convenzione di Istanbul e ignori completamente qual è la radice culturale della violenza maschile contro le donne. Purtroppo la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio ha rilevato nelle sue indagini che questa non è un’ipotesi, è la realtà.
Cambiamo – apparentemente – scenario. Le autorità talebane che governano l’Afghanistan hanno approvato una legge emanata dal ministero per la prevenzione dei vizi e la promozione delle virtù. Potremmo fermarci qui perché già il solo fatto che esista un ministero con questo nome costituisce di per sé un problema per i diritti civili, ma proseguiamo. Questa legge riunisce in unico testo organico varie norme - alcune delle quali già in vigore - che limitano pesantemente i diritti delle donne imponendo restrizioni sul loro comportamento: oltre al già previsto obbligo per le donne di coprirsi il corpo e il viso quando sono in pubblico e il divieto di indossare vestiti aderenti o corti, oltre al divieto di accesso alle scuole superiori e all’università, ora le donne non possono cantare, recitare o leggere ad alta voce in pubblico. Condannate al silenzio, la voce delle donne non deve esistere, le donne non devono esistere. «Il coro, il canto è la voce dell'anima» ha commentato Caterina Caselli, «questo divieto è di una violenza inaudita. Persino gli schiavi avevano la possibilità di cantare seppure con le catene ai piedi. Il canto è una forma di elevazione, permette anche di dimenticare la realtà». Ho appena visto il film di Margherita Vicario “Gloria!”, che racconta di un gruppo di giovani donne musiciste vissute in un orfanotrofio veneziano nel 1800: la loro musica non interessava, la loro voce non interessava, l’uomo direttore dell’orchestra riteneva che le donne non avessero nulla da dire né da suonare né da cantare. Alla fine quelle giovani donne ce la fanno a suonare e cantare la loro musica. Ma ancora oggi la storia della musica esclude dalle sue pagine le donne.
E arriviamo a Giulia Cecchettin. Il suo nome è diventato piuttosto conosciuto, e il processo al suo assassino inizierà il prossimo 23 settembre a Venezia. Si è scritto tanto di Giulia e ne ho scritto anch’io, non mi ripeterò. Voglio solo trovare il bandolo che unisce queste storie apparentemente diverse.
Lorena Quaranta stava per laurearsi in medicina, una laurea considerata più prestigiosa di quella in scienze infermieristiche conseguita dal suo compagno. «Mi riempi tanto la testa con il fatto che vuoi essere alla mia altezza e poi ti comporti come un paesano ignorante che dà colpi sul vetro» gli scriveva Lorena.
Giulia Cecchettin stava per laurearsi in ingegneria biomedica, prima del suo fidanzato. «O ci laureiamo insieme o la vita è finita per entrambi» le scrisse il suo assassino.
Lorena con la laurea avrebbe superato il prestigio dell’uomo al suo fianco. Giulia dopo la laurea aveva in programma di trasferirsi per seguire un corso da disegnatrice che l’appassionava. Questi uomini avrebbero perso il controllo sulle “loro” donne, laddove il problema – mi ripeto, stavolta sì – sta esattamente nell’aggettivo possessivo “loro”.
L’Afghanistan è molto lontano da noi, direte in tante e tanti. No. L’Afghanistan usa semplicemente modi diversi dal nostro per silenziare la voce delle donne. Ma il risultato è lo stesso: le donne che non stanno alle regole – scritte o non scritte – vengono messe a tacere con la violenza, e così l’ordine è ristabilito.
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