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Donne fantasmine nella marginalità etnica: storie di Sevla e Alia

Donne fantasmine nella marginalità etnica: storie di Sevla e Alia

La Campagna oltre il pregiudizio e il racconto delle condizioni di vita della minoranza rom che vive nei campi della Capitale

Mercoledi, 27/02/2019 - Campagna oltre il pregiudizio è il titolo di una iniziativa alla quale ho partecipato, promossa da molte associazioni romane, tra le quali, capofila è stata l’associazione “Rete fiore”.
L’obiettivo della Campagna (ottobre-dicembre 2018, ndr) è stato quello di mettere a fuoco le condizioni di gruppi e minoranze oggetto di pregiudizi e discriminazioni.
Una minoranza presa in esame è stata quella delle popolazioni rom, presenti nella capitale, dedicando un’intera giornata alla visita e all’incontro con le popolazioni rom dei campi esistenti sul territorio romano.
Per l’incontro sono stati individuati due campi: Via di Salone e Salviati 2.
Nelle visite ero accanto a Marco Brazzoduro, un collega della Sapienza che da lungo tempo di occupa dei rom e ne conosce luoghi e condizioni di vita.
Il campo di Via di Salone si trova fuori dal Grande Raccordo Anulare, raccordo che delimita lo spazio urbano della città, lontano dalle zone abitate, collocato su un terreno che non è né città né campagna. Il campo, realizzato dal comune di Roma con dei containers, non ha mezzi pubblici di collegamento con la città.
Duecento famiglie, oltre mille persone, sono state allocate nel campo. Oggi la popolazione è diminuita per le condizioni di invivibilità di servizi e abitazioni.
Al nostro arrivo al campo di Via Salone, abbiamo trovato i vigili urbani all’accesso del campo, poi un gruppo di giovani e ragazzine fuori il cancello d’entrata, i quali hanno cominciato a gridare, respingendoci con un’accusa infamante: «Voi venite a rubare i nostri bambini per fare commercio di organi umani». A me è sembrata così assurda l’accusa, che mi sono messa a ridere come fosse uno scherzo. La presenza di Marco Brazzoduro, rassicurante per i rom, conosciuto dagli abitanti del campo, ha allontanato i sospetti e, finalmente, siamo stati accolti con curiosità e interesse.
Per capire il senso dell’accusa, chiediamo lumi ai giovani, i quali rassicurati ci svelano ciò che era successo nel campo. Pochi giorni prima, sul far della sera, dal recinto laterale del campo, accessibile dall’esterno, uomini incappucciati sono entrati silenziosamente e hanno avvicinato bambini e bambine, immersi nel gioco in un angolo appartato nel campo, adescandoli con dolciumi e denaro ed esortandoli a seguirli.
Dalla finestrella di una campina lì accanto, una donna si accorge delle manovre degli intrusi e getta l’allarme. Accorsi immediatamente gli uomini del campo, con bastoni e spranghe, hanno messo in fuga gli intrusi.
Nel campo si sparge la notizia e tra i rom si diffonde la convinzione che i bambini venissero rapiti per il commercio degli organi.
Per noi visitatori, risolto l’equivoco, è stato facile inoltrarci nel campo, ricevuti con calorosa accoglienza, come è costume dei rom rispetto ai gagé che si dimostrano amici. Una richiesta, da ogni famiglia ripetuta, riguarda i certificati di identità e i permessi di soggiorno.
Bisogna dire, che all’interno delle famiglie molti membri non hanno il permesso di soggiorno e, non pochi di loro, sono privi di documenti di riconoscimento. In queste condizioni, per la “società civile”, sono dei fantasmi, esseri sospesi nel limbo del non essere, non esistere.
Da Via di Salone ci siamo spostati al campo Salviati 2, ad est della città. Il campo è situato in una zona degradata del quartiere di Tor Sapienza, già periferico. Realizzato dal comune di Roma con containers, il campo è oggi sovraffollato. Si sono moltiplicate le baracche, costruite dai rom per l’accrescersi della popolazione. La situazione igienica è di abbandono, i servizi sono al collasso.
Qui Marco Brazzoduro è di casa e cerca di essere di aiuto alle esigenze molteplici della popolazione: esigenze sanitarie, di inserimento scolastico, di richieste di permessi di soggiorno. Non è raro che Marco accompagni i rom agli uffici del Comune, i quali non sono in grado di districarsi tra le complessità burocratiche, i rinvii, i dinieghi degli addetti all’Amministrazione. Di fatto i rom, proveniendo da un contesto familistico per lo più senza alfabetizzazione, si trovano in difficoltà nei rapporti spersonalizzati della dimensione burocratica.
Nel procedere all’interno del campo, tra le baracche ammassate le une alle altre, mi accorgo della fuoriuscita delle acque nere che spandono un odore mefidico tutt’attorno.
Una bambina con il viso coperto di pustule ci viene incontro, la segue una zingara, sua madre. È inverno, fa freddo, la bambina ha un paio di sandali estivi, ha i piedi nudi, indossa due maglietti di cotone. La madre, anch’essa con i sandali estivi, ha un viso sparuto, dimesso. Ci fermiamo a parlare con loro. Alia, una bimba di otto anni, nonostante le sue condizioni, è allegra e ci sorride. Sua madre, poco più che trentenne, ha il marito in carcere e vive con la figlia insieme ai genitori e otto fratelli in una campina di 15 mq, entrambe mal sopportate dai membri della famiglia.
Marco mi dice che Sevla viene dalla Bosnia, è senza documenti, non sa leggere, né scrivere, così come la figlia Alia, anche lei senza identità, e senza scolarizzazione. La loro vita si svolge nell’ambiente del campo, unico spazio tempo limbico nel quale si muovono con sicurezza.
Lasciando Salviati 2, comincio a pensare come aiutare Alia e sua madre. Per le pustule di Alia, chiedo al mio medico di base se può visitare la bimba. Risposta affermativa, appuntamento per l’indomani. Marco arriva allo studio medico con Alia e Sevla, ci sono molti pazienti, così l’attesa si prolunga per due ore. Colgo l’occasione, prendo un libro, lo apro, faccio vedere alcune parole a Veronica e provo a sillabarle. La bimba è attenta, le faccio ripetere e ripetere finché le indico a caso le lettere di una
parola e Alia le riconosce e le pronuncia. Le persone in attesa della visita si interessano, sorridono a Alia. Un signore fa un gioco di prestigio per divertire la bimba e Alia capisce subito dov’è il trucco.
All’ora della visita, il medico riscontra un’acne di natura infettiva, scaturita dalle condizioni di vita del campo. Procuro a Alia le medicine prescritte.
Dopo due giorni rivedo Alia e Sevla, la bimba mostra sul viso segni di miglioramento. Porto madre e figlia all’OVS, un magazzino di abbigliamento a costi accessibili. Compro scarpe, indumenti, giacche di piumino a entrambe, poi andiamo al ristorante cinese, dove mi sorprende la compostezza della piccola nel muoversi e nel mangiare.
La mattina seguente mi chiama Sevla, la famiglia l’ha buttata fuori casa, lei e Alia hanno dormito all’addiaccio, sulla nuda terra del campo. Al risveglio, gli scarponcini di Alia non c’erano più.
Con Marco Brazzoduro cerco una sistemazione alternativa al campo. Marco, che conosce molti istituti di accoglienza, riesce a trovare una Casa Famiglia disposta ad ospitare Alia e sua madre.
Nel frattempo ci diamo da fare per le vaccinazioni della bimba, condizione sine qua non, non può essere iscritta a scuola. Andiamo da un ufficio all’altro, è un rebus, perché Alia non ha documenti.
Mentre cerchiamo di risolvere il problema, Sevla compie un’azione imprevedibile, si allontana con la figlia dalla Casa Famiglia. L’assenza dura due giorni. Ci diamo da fare per rintracciarla. Alla fine, Marco la trova ospite nel campo rom dove vive la sorella di Sevla.
Riprendiamo il percorso per la vaccinazione e l’inserimento scolastico di Alia; ma la madre, inaspettatamente, ci dice che ha provveduto lei stessa alla vaccinazione e all’inserimento scolastico, ma la scuola si è rifiutata di accogliere Alia. Queste affermazioni di Sevla risulteranno non vere ad un accertamento. Di fatto, Sevla ha paura di perdere la figlia, ha paura degli assistenti sociali, i quali, nelle condizioni in cui vivono madre e figlia, possono sottrarle la bimba.
Rimane la grave questione dell’inesistenza giuridica di Sevla e Alia. Pensiamo che, se Sevla avesse un passaporto, potrebbe iscrivere la figlia nel documento, così da dare anche a Alia un’identità di riconoscimento. I documenti di Sevla potrebbero essere richiesti nella località dove è nata in Bosnia e dalla quale è fuggita.

Chiediamo aiuto all’associazione “A Buon Diritto”, di cui è presidente il senatore Luigi Manconi.
Marco conduce Sevla presso l’associazione “A Buon Diritto”; c’è molto da aspettare, perché numerose sono le persone, immigrate, prive di permesso di soggiorno, che chiedono assistenza. Sevla appare inquieta, percepisce il luogo in cui si trova come estraneo, come altro da sé, si sente in un ambiente ostile. Comincia a smaniare per lasciare l’Associazione, al fine si alza e chiede senza ripensamenti di essere riaccompagnata al campo.
Per noi è il segnale dell’inanità e inadeguatezza dei nostri sforzi. Come si è allontanata dalla Casa Famiglia, così Sevla fugge dall’Associazione, un luogo di cui non sente l’appartenenza e che le procura angoscia, alienazione.
A questo punto c’è da considerare la rottura, lo iato profondo, praticamente insormontabile, tra i nostri comportamenti “civili” e i comportamenti culturali di membri di un universo etnico, come quello dei rom, ai quali Sevla appartiene.
Per capire il fallimento dei nostri sforzi, credo importante mettere a fuoco i sistemi di riferimento culturale della società civile, rispetto a quelli etnici. Per capire, ho cominciato col considerare i presupposti storico – culturali del nostro modo di essere in quanto membri di un sistema, che ha per fondamento il diritto.
Nel sistema della società civile, che in occidente ha dato vita al mondo moderno, ogni individuo è concepito come un singolo soggetto di diritto. In quanto dotato di ragione, egli è libero, in grado di autodeterminarsi come persona, per questo indipendente dall’appartenenza di suolo e di sangue e dall’essere posto in essere dalla società e dallo Stato. È la società civile che si sostanzia nel cives, cioè nel cittadino, soggetto libero di darsi sistemi di governo confacenti alle esigenze dei cives consociati, i quali creano una “sfera pubblica”, considerata lo spazio – tempo dei diritti – doveri di tutti i cittadini attivi nella sfera pubblica.
Nel sistema etnico, di contro, l’individuo dipende dall’appartenenza al gruppo. Non c’è soluzione di continuità e contiguità tra i membri del gruppo etnico. In tal senso il gruppo di appartenenza conferisce all’individuo l’identità, le coordinate di senso e di scopo della sua vita.
Per quanto riguarda i rom, i gruppi sono organizzati in clan familiari molto estesi, formati da più membri che possono raggiungere le cento unità e oltre. Il clan familiare rappresenta il cordone ombelicale dell’appartenenza etnica.
Nei campi rom convivono più clan familiari, autoreferenti e talvolta conflittuali tra loro. Di fatto, la convivenza tra i clan nei campi rom si regge sull’aiuto reciproco, ma anche sulla omertà rispetto a comportamenti che confliggono con la legge.
Nell’organizzazione etnica, usi, costumi, credenze, rituali, ruoli ascritti, femminili e maschili, determinano i modi di vita dei singoli membri dei clan familiari, nei quali gli uomini hanno un potere dominante sulla donna. Il gruppo etnico si mantiene attraverso la trasmissione per contagio di valori umani e criteri di giudizio, in uno spazio – tempo condiviso e convissuto ed espresso dalla cultura orale che caratterizza il mondo rom.
Un discorso a parte merita la categoria lavoro. Nella società civile la categoria lavoro è vissuta come mezzo necessario per vivere e come valore, nel senso che il lavoro consente l’autorealizzazione del singolo individuo; nel senso che il lavoro conferisce all’individuo la possibilità di vivere dignitosamente e di essere integrato nella realtà sociale in cui vive.
Nel mondo rom dei campi, prevale la cultura dell’espediente come mezzo di sussistenza, almeno da quando è stato imposto loro l’obbligo della sedentarietà. E da quando è stato impedito ai rom di viaggiare, di praticare le loro attività, come l’allevamento e il commercio dei cavalli, e l’offrire servizi alle comunità che incontravano nei loro spostamenti, come sellai, ramai, giostrai, ecc….
C’è da dire, comunque, che la categoria lavoro intesa come berufe, come obbligo morale, non esiste nella cultura rom.
Evoluzione, progresso, sviluppo, quali categorie della società civile, sono pressoché inesistenti nell’universo etnico, almeno quello del mondo zingaro, dove non si ha una chiara coscienza tra passato, presente e soprattutto futuro, per cui la vita si svolge nel presente, nell’oggi.
Per capire il comportamento di Sevla, dobbiamo considerare che in questi sistemi culturali, la dimensione emotiva determina il legame viscerale, indissolubile tra i membri del gruppo clanico. Il distacco da esso, l’allontanamento, può determinare la percezione di perdita di orientamento, può provocare uno stato di confusione, di anomia, soprattutto nei rapporti spersonalizzati, quali avvengono nella dimensione burocratica. Per questo può capitare ai rom, come nel caso di Sevla, di subire stati d’animo generatori di ansia, di angoscia, di desiderio irrefrenabile di ricongiungimento al gruppo di appartenenza, ai suoi codici di comportamento, allo spazio – tempo ad essi familiare.
Questa condizione è tanto più accentuata, quanto più il gruppo etnico vive separato in spazi circoscritti, come i campi rom, nei quali, il mondo esterno viene vissuto come alieno, distruttivo dell’unità etnica, tanto più, quanto maggiore è il comportamento di rifiuto e discriminazione che la società civile mostra nei confronti dei rom, ai quali non è stata data, a tutt’oggi, la possibilità di integrarsi nella compagine del mondo moderno e di porre in atto un progresso dei loro modi di vita, confacente alla loro cultura. Il campo diventa così un sistema sociale totale, dove il vivere e il relazionarsi perpetuano modi e costumi etnici sempre più lontani e in contrapposizione rispetto alla città e ai modi di vita della cittadinanza.
Il comportamento di Sevla, va compreso nel quadro di riferimento fin qui esposto. Sevla non conosce altra realtà che quella clanica del campo rom e la figlia rappresenta il senso e lo scopo della propria esistenza. Per questo, la tiene attaccata a lei, escludendole ogni possibilità di sviluppo, come la scuola.
Ma per una bambina intelligente, vivace, una bimba che ha potenzialità intuitive e creative come Alia, la quale si trova senza identità, senza scolarizzazione, calata in una realtà limbica senza tempo, che ne sarà di lei?

Le immagini pubblicate sono di Gianni Berengo Gardin


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