Figlia di un pastore valdese e di una maestra elementare, Frida Malan, classe 1917, è partigiana combattente nelle Valli Valdesi durante la Resistenza. Sorella di due comandanti partigiani, come è successo ad altre donne, ha difficoltà ad essere riconosciuta dagli stessi partigiani. Difficile dar credito a una donna nell’ambiente contadino montanaro patriarcale delle valli. I due fratelli non si fidano, per la paura che si potesse lasciar scappare qualche segreto. Viene arrestata a Torino e imprigionata in via Asti: qualcuno aveva fatto il suo nome. Ma una volta uscita dalla caserma non si presenterà più . Tinti i capelli e con falsa identità continua a lavorare clandestina nelle fabbriche. Dopo la prigione le assegneranno l’incarico di dirigente e seguirà l’attività delle fabbriche, ottenendo il diritto di voto nel Comitato, mentre le altre donne per potersi esprimere dovranno aspettare la caduta del fascismo.
Frida si racconta nell’intervista rilasciata a più riprese a Piera Egidi Bouchard (Frida e i suoi fratelli, Claudiana Editrice, 2003). Segue gli spostamenti del padre pastore e della famiglia da Catania, Palermo, le estati a Torre Pellice, Pisa e poi Como fino alla morte del padre, avvenuta nel ’35. Dal ’27 al ’31, il periodo pisano è quello delle prime letture formative e la presa di coscienza politica e sociale. A partire dalle discussioni con la mamma, per le donne di servizio: “ è un’ingiustizia!” Sì perché Frida è sempre stata dalla parte dei deboli, fin dall’età di undici anni quando, per la prima volta, si rende conto del significato delle “case chiuse” e matura una consapevolezza dell’importanza del rispetto per la donna e dei diritti umani. Le leggi razziali contro gli ebrei la portano in uno stato di tale prostrazione da essere ricoverata in clinica. Imprudente telefonava di notte agli ebrei: “scappate!”. E magari i telefoni erano sotto controllo.
Le estati della prima adolescenza trascorrono tra i giochi a Torre Pellice, nel bel giardino dalla grande sequoia di Villa Bernoulli. Diventerà amica di Silvia Pons, un’altra donna molto libera, nei giudizi e libera dai pregiudizi. Viaggiatrice, avventurosa, inquieta. Organizzatrice durante la Resistenza del movimento femminile “Giustizia e Libertà”.
Sarà la mamma di Silvia a dare a Frida lezioni di ricamo, ogni giorno un’ora. Da mamma Giulia non aveva imparato nulla. Il fratello Roberto si ricorda delle lamentele del padre: “cerca di insegnarle qualcosa, non sa far niente”. Allora la madre tira fuori l’asse e le fa vedere stirare. Il suo rammarico: “rifarei tutto quello che ho fatto, ma imparerei ad occuparmi della casa. Ho il diabete perché ho mangiato troppe patate dopo la morte della mamma: sapevo cucinare solo quelle”.
Mamma Giulia Rivoir ricorda Frida vincente, quando riesce a sfuggire agli agguati delle camicie nere, o di guardia sul balcone durante le riunioni dei rappresentanti delle organizzazioni operaie di “Giustizia e Libertà”, in casa loro, magari con i documenti nascosti in una cassa. Dopo la morte del padre nel ’35, cerca la sua vocazione. Il 10 giugno 1940 è il giorno in cui si laurea in Lettere e lo stesso in cui l’Italia entra in guerra. Prima sede di insegnamento, Bergamo:“ intorno a me degli entusiasti fascisti. E non potevo esprimermi, sarei stata arrestata”. Il successivo incarico a Susa, ma: “io preferivo discutere coi carrettieri”.
Da valdese non cattolica è temuta dal vescovo e altri ostacoli si interpongono per il suo modo di insegnare libero: “poi non parlavo mai male degli ebrei”. Sta di fatto che prima viene spostata e l’anno dopo non avrà più la cattedra. Una fortuna perché entrerà nella Resistenza. Si iscrive a Legge: “avevo deciso che se il fascismo restava non facevo più l’insegnante”. I viaggi in treno sono l’ occasione per incontrare un mondo diverso, ascoltare i discorsi politici degli emigranti e i contatti con la cultura francese. A Ginevra, i libri comprati e portati in Italia: “alcuni non si potevano nemmeno tenere in casa, secondo la legge”. Ora il terreno è pronto per l’attuazione dell’imperativo categorico: “Devo cercare la mia via”. Il cammino comincia l’ 8 settembre ’43, con la vita partigiana a Torino. Una scelta passionale, insieme all’attitudine al comando e nutrita di internazionalismo, orizzonti laici, europei, ecumenici. Madre e figlia condividono i pericoli della clandestinità, in montagna, ad Angrogna e nella loro casa di Torino, in corso Galileo Ferraris dove si riuniva il Comitato direttivo del Partito d’ Azione costituitosi in città.
Il 1944 vede la nascita dei gruppi di “Volontarie della Libertà” e di “Difesa delle donne” formati da intellettuali, contadine, casalinghe nelle case e nelle scuole. Vi aderirà insieme a Ada Gobetti e all’amica Silvia Pons . Nell’inverno è organizzata la settimana di assistenza e cura dei combattenti per la lotta di liberazione, sempre con il generoso contributo di Frida. Tiene contatti con le donne delle Manifatture Tabacchi, le fabbriche delle scarpe Superga, presenzia alle assemblee della Mazzonis di Luserna e alla Stamperia di Torre Pellice. Rischia in prima persona perché “il generale non può restare nelle retrovie, deve essere in prima linea”. Così durante i funerali di due sorelle operaie prese nel marzo del ’45 dai fascisti organizza - in mano un mazzo di fiori- una manifestazione di donne. Il foulard in testa, si infila dietro un altro funerale e dice a una giovane sconosciuta abbracciandola: “Di’ che sei mia figlia!” E così scampa all’arresto da parte dei fascisti.
Dopo la Resistenza, proprio quando per le donne partigiane è difficile avere un riconoscimento pubblico, Frida Malan intraprenderà con determinazione gli incarichi di gestione dell’attività politica. Risentirà dell’educazione ricevuta nella famiglia pastorale, dove conta l’esempio testimoniato dalle opere. Ma il suo sarà un approccio tutto nuovo: un tratto di rossetto, sguardo azzurro, elegante, raffinata, intuitiva saprà recidere il modello di conduzione dell’attività politica secondo schemi declinati al maschile.
La prima donna assessora all’igiene-sanità in una grande città italiana, nel 1966 e per nove anni, poi alla cultura e quindi al patrimonio e ai lavori pubblici, conosce ogni pietra della città di Torino. Decisioni prese non secondo la burocrazia normale, “ma secondo la mia coscienza e il mio modo di vedere”: l’ attenzione alle persone, gli aiuti anche per piccole cose, il confronto e le discussioni, il colloquio tra i cittadini e i consiglieri comunali. Ha chiara coscienza del suo ruolo e onestà intellettuale: “ non si può essere onniscienti” e si circonda di fidati funzionari ed esperti. La sua umanità rappresenta un cavallo di battaglia. Acquista il “manicomio di via Giulio” e fornisce di una sede tutti i comitati di quartiere. Avvalendosi della legge Mariotti, impone farmacie comunali nelle zone più periferiche, una vicino alla stazione, faceva comodo soprattutto ai pendolari. Una sensibilità particolare per l’istruzione, la scuola, i bambini, i figli degli immigrati. E per i diritti delle donne.
Ascoltata in eventi pubblici con ammirazione e stima, fino alla fine -muore a 85 anni- sarà testimone delle sua storia e di quella collettiva, delle vicende della guerra e dell’antifascismo. Il Console italiano in Polonia la presenterà come Capitano dell’esercito di Liberazione. Appassionata, coinvolgeva soprattutto i giovani, per quell’attitudine femminile di intessere dialoghi tra le generazioni, e per aver saputo operare e vivere dentro la storia di un presente ancora in cammino.
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