Sabato, 11/05/2019 - La presentazione del “Gender Policies Report” fatta a Roma il 7 maggio dall’INAPP, Ente nazionale che svolge analisi e valutazioni sulle politiche del lavoro, sociali e della formazione,( www.Inapp.org) ha fornito non solo una fotografia aggiornata della situazione del mercato del lavoro con dati comparativi sulle diversità tra uomini e donne ma importanti e nuovi spunti per una riflessione sulle politiche da adottare in questo campo. L’iniziativa ha presentato una anticipazione dei dati che usciranno nelle prossime settimane ma ha voluto anche aprire un confronto su proposte e politiche da adottare, coinvolgendo esperti ed esperte provenienti sia dallo stesso INAPP ( Valentina Cardinali e Marco Centro) che da altre realtà ed esperienze: Franca Cipriani Consigliera nazionale di Parità, Tindara Addabbo della Università di Modena, Laura Calafà della Università di Verona, Maria Cristina Rossi dell’Università di Torino.
La prospettiva da cui muove il Rapporto, come ha detto all’inizio il presidente Stefano Sacchi e come ha ripreso più volte Valentina Cardinali che ha illustrato il Rapporto, è che il tema dell’occupazione femminile non è etichettabile come una sola questione di pari opportunità ma investe tutti i processi di sviluppo del paese: la disparità infatti della presenza delle donne nel campo del lavoro è una inefficienza strutturale che incide negativamente sui dati della ricchezza del paese, perchè sottrae una quota rilevante di risorse umane alla partecipazione economica e sociale. Riagganciandosi ad analisi presenti da tempo nello scenario europeo e internazionale, è oramai dimostrato che un incremento e miglioramento del lavoro delle donne ha un effetto moltiplicatore su tanti aspetti: richiesta e offerta di servizi, aumento e qualificazione di consumi, sviluppo delle imprese, per non parlare della emersione di più talenti e competenze nella società. Questa ottica strutturale, essenziale per affrontare con incisività il problema, fa leggere però i dati che il Rapporto ha presentato (e che sono gli ultimi di una lunga serie) con una grande segno negativo e pessimistico che è stato definito come una sorta di “sfida persa” rispetto agli obiettivi di superamento dei gap femminili che ci si era dati, anche in relazione al quadro europeo. Quali gli elementi caratterizzanti che portano a considerare la debolezza della presenza delle donne nel mercato del lavoro italiano “strutturale”, cioè scarsamente modificata anche dopo un lungo un arco di tempo?
L’interesse del Rapporto sta proprio qui, nello svelare e dettagliare le debolezze e differenze anche dentro a dati che qualcuno può leggere in modo più positivo e che spesso vengono giocati sul terreno di una informazione generica quasi per consolazione.
Con la evidenza dei dati aggregati e disaggregati nel tempo emergono gap di genere praticamente in tutti gli indicatori del mercato del lavoro, quelli più espliciti come i tassi di attività, di occupazione e disoccupazione, ma anche quelli meno espliciti evidenziando, ad esempio, che per le donne c’è una specificità nello scivolamento dall’occupazione alla inattività che rende il problema della non presenza delle donne meno evidente.
E se la situazione del 2018 del mercato del lavoro evidenzia in generale per tutti accanto ad una crescita della occupazione un crescente sottoutilizzo del lavoro con una diminuzione del numero di ore lavorate pro capite, con conseguente bassa crescita dei salari, per le donne ha confermato, aldilà della registrazione di un aumento delle donne occupate, tutte le criticità strutturali: incidenza elevata di lavoro non stabile, aumento del part time (anche involontario) e diminuzione delle ore lavorate, prevalenza in settori a bassa remuneratività, persistenza della discontinuità occupazionale dovuti a carichi di cura (maternità ma anche cura di altre persone della famiglia).
Elementi che decisamente contrastano con alcune illusioni circa i vantaggi automatici per le donne potrebbero trarre da processi economici più avanzati e innovativi. Malgrado le leggi, inoltre, c’è ancora un divario retributivo di genere che viene “scovato” attraverso analisi più approfondite. Alcune tabelle presentate evidenziano elementi preoccupanti: la maggiore percentuale di presenza di donne nei lavori discontinui e non stabili soprattutto nella fascia intermedia, con effetti gravi su tutto il sistema di assistenza e quello pensionistico soprattutto per quanto riguarda le donne e le loro prospettive di vita. Un altro capitolo rilevante è ancora quello della segregazione orizzontale e verticale della occupazione femminile e la presenza rispetto ai settori economici, con una forte prevalenza nel vasto campo dei servizi, dove peraltro il gap tra uomini e donne permane rispetto alla posizione e gerarchia professionale. In questo quadro emerge in tutti i settori la grande segregazione oraria delle donne, essendo le donne impiegate per un monte ore inferiore. Le donne prevalgono numericamente nelle classi di ore lavorate 1-10 e 11-25 mentre gli uomini sono comparativamente prevalenti nelle classi lunghe di orari (40 ore e oltre). Anche il part time continua ad essere un istituto tipicamente femminile (il 75% degli occupati generali part time), situazione che porta con sè il tema del cosidetto part time non scelto e perciò spesso non reversibile. Al centro dei divari di genere esaminati c’è la questione della maternità ma più in generale il diverso modo in cui la condizione familiare e il carico dei figli pesa soprattutto sulle donne.
La maternità continua ad essere per la donna la prima causa di abbandono del lavoro, senza molte differenze territoriali. Entro i primi tre anni di vita del bambino il mercato del lavoro perde il 12% di donne ma sono anche in aumento le cosiddette dimissioni “volontarie” che svelano da un lato le difficoltà ad usufruire di servizi di supporto ma anche una zona grigia di convenienza dei datori di lavoro di favorire una uscita di risorse femminili in un periodo ancora percepito problematico.
Il Rapporto svela anche che ancora pesano nel contesto del mercato del lavoro comportamenti familiari consolidati oltrechè stereotipi di genere nella organizzazione del lavoro. Un dato interessante emerge da una rilevazione fatta che guarda al modello culturale e organizzativo delle coppie: a fronte di alcune non rilevanti differenze tra uomini e donne in una situazione senza figli in generale prevale sempre una situazione di posizione forte di occupazione dell’uomo (tempo pieno e più remunerato) rispetto a quella della donna, (part time, lavori precari, disoccupate), perpetuando di fatto un modello di percettore principale maschile di reddito. Più di 2 milioni e quattrocentomila donne con il marito/compagno occupato a tempo pieno sono addirittura fuori dalle forze di lavoro.
Anche le misure di incentivazione per creare occupazione hanno visto un evidente squilibrio nel loro risultato tra uomini e donne, innestandosi nello scenario senza produrre inversioni di tendenza vera.
Il panorama poi che viene fuori sui dati che riguardano le misure che hanno cercato di affrontare la questione della conciliazione e del superamento del tradizionale gap nelle responsabilità familiari evidenzia una larghissima incapacità di invertire la rotta: il congedo parentale rivolto a padri e madri (retribuiti al 30%) continua ad essere adottato prevalentemente dalle donne mentre il congedo di paternità (alquanto breve se obbligatorio) non ha inciso sul riequilibrio di genere nella funzione di cura.
In sostanza il Rapporto, come ha sottolineato Valentina Carnevali, ha dimostrato che ad incidere sulle debolezze del mercato del lavoro delle donne in questi ultimi anni non sono stati, come è avvenuto per gli uomini, fattori legati alle crisi economiche (vedi l’arco di tempo dal 2008 al 2012) ma elementi che da 30 anni persistono a configurare un vero e proprio modello di partecipazione femminile nel nostro paese. Un modello rispetto al quale non sono state evidentemente adottate misure e politiche capaci di incidere su tutta una serie di fattori ,che come ha confermato il Rapporto, oramai sono ben noti a tutti.
Costanza Fanelli
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