A tutto schermo - Tante registe e cineaste affrontano storie e personaggi che si occupano di mediazione alla pace, contro i conflitti e la violenza
Colla Elisabetta Lunedi, 05/03/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2012
E ORA DOVE ANDIAMO?
Al ritmo di una danza funebre, che evoca tragedie compiute e tristi presagi, avanza un gruppo di donne in nero, stringendo foto di mariti e fratelli, mentre la luce calda del sole mediorientale illumina lo sfondo. È la scena iniziale del film “E ora dove andiamo?”, seconda prova dell’affascinante regista/attrice libanese Nadine Labaki (il cui talento era già emerso nel 2007 con il delizioso “Caramel”), qui ancora nella doppia veste di filmaker ed attrice protagonista. Fra le donne che danzano dirette al cimitero del villaggio, rimaste sole - s’intuisce - a causa dei tanti conflitti passati e presenti che hanno colpito il paese, c’è anche lei, alta e ieratica, lunghi capelli neri, penetranti occhi scurissimi. Ancora una volta la cifra stilistica privilegiata dalla cineasta, decisamente vincente dato il risultato, è quella del sogno, dell’ironia, della levità, pur all’interno di una trama densa di fatti tragici che richiamano le tristi vicende del Libano, senza mai nominarlo né collocare la storia in precise coordinate spazio-temporali, ma volendo elevare il messaggio ad un ambito universale, rispetto a popoli e paesi che vivono in perenne stato di guerra. In un polveroso villaggio, un affiatato gruppo di donne, cristiane e musulmane, amiche e vicine di casa, mette in atto ogni possibile stratagemma per evitare i conflitti fratricidi sempre sul punto di scoppiare nel Paese e per salvare dalla follia della guerra figli, mariti e congiunti. Ecco allora, fra gli espedienti più riusciti, sottolineati da trovate e dialoghi brillanti, che le donne stesse invitano un gruppo di giovani prostitute con lo scopo di distrarre gli uomini già intenti a dissotterrare i fucili, ed organizzano una memorabile assemblea, che si trasforma in una festa a base di dolci all’hashish (la canzone e la danza delle donne che preparano quintali di frittelle mescolando ‘erba’ e sonniferi resta impressa per ironia ed originalità), giungendo finanche a scambiarsi i simboli religiosi: le cristiane indossano il velo nero dell’Islam e fingono di studiare il Corano, mentre le musulmane si scoprono la testa e improvvisano devozioni verso la croce e la Madonna in chiesa. Ma a nulla varranno i loro sforzi congiunti, poiché le forze oscure del male e del conflitto religioso colpiranno, poco fuori del paese dove già ferve la guerriglia, la più innocente delle vittime - come nella miglior tradizione tragica - un adolescente puro ed ignaro di tutto, pupillo di una vedova già avanti negli anni la quale, con la morte nel cuore, nasconde il cadavere del figlio nel pozzo per evitare lo scatenarsi della vendetta nel villaggio. Il sacrificio del giovane, una volta scoperto, sembrerà portare una momentanea sospensione delle ostilità fra i disorientati abitanti, i quali però, anche al momento di seppellire la salma, si pongono la domanda “E ora dove andiamo?”, confusi fra il cimitero cattolico e quello arabo. “Non ho una risposta, una soluzione a questa domanda - afferma la regista - ma sento che come donna, madre ed essere umano, è una mia responsabilità provare a rispondere e dico il mio punto di vista contro le assurdità dei conflitti”. Nadine Labaki, nel ruolo della bella proprietaria del bar del paese - vero microcosmo simbolico, luogo d’incontro e scontro - innamorata di un giovane di opposto credo religioso, interpreta un personaggio che incarna l’equilibrio e la mediazione fra le parti, la modernità laica ed accogliente contro la follia dell’odio e della guerra. La forza e la saggezza antica delle donne sono racchiuse nel cinema della Labaki, che ha appreso dall’esperienza personale i danni enormi della guerra, di tutte le guerre, e la capacità di resistenza e ricostruzione delle donne. Un film potente e leggero al tempo stesso, contro ogni fondamentalismo.
POLISSE
Premio della Giuria al festival di Cannes 2011, il film Polisse, della giovane ed attraente regista-attrice francese Maïwenn, racconta, con ritmo concitato e in presa diretta, le vicende di un gruppo di agenti di Polizia della Sezione Protezione Minori: violenze, pedofilia, maltrattamenti, incesti, case-famiglia ed ospedali, ragazze-madri, rapimenti e adolescenti difficili. Tutto questo lascia tracce indelebili sulla psiche, sentimenti e vita privata degli stessi agenti e, per ogni bambino salvato, sembra dire il film, si paga un prezzo. Il lungo lavoro di preparazione svolto da Maïwenn con i suoi attori, sottoposti ad un lungo training con un poliziotto della Sezione Minori ha prodotto ottimi frutti: il film è autentico, crudo, brillante, usa un gergo pesante ma assolutamente credibile: sembra di essere lì, anche noi con il fiato sospeso, a cercare di salvare l’ennesimo ragazzino in difficoltà, ad interrogare l’ennesimo padre sospettato di violenza. Contemporaneamente scorrono le vite dei poliziotti, fra nuovi amori, separazioni, depressioni, amicizie, litigi e qualche evasione.
IL SENTIERO
Il secondo lungometraggio della regista Jasmila Zbanic, originaria di Sarajevo, non delude coloro che avevano amato Grbavica, Il segreto di Esma, film con cui si aggiudicò l’Orso d’Oro alla Berlinale nel 2006. In bosniaco il titolo originario NaPutu, Il sentiero, significa “essere in cammino verso una meta”, dunque ha una valenza spirituale, ma può essere riferito anche ad un bambino che sta per nascere, in cammino verso la nascita. La storia di una coppia moderna, Luna e Amar, in cammino sullo stesso sentiero d’amore e condivisione, fino ad un imprevedibile punto di svolta, è lo spunto per parlare delle aberrazioni di ogni fondamentalismo e fanatismo (qui incarnato dal gruppo religioso dei ‘wahhabiti’), che sostituiscono le regole ed i precetti esteriori alla vera comunione fra individui. Luna vedrà il suo compagno Amar, reduce dalla guerra, disoccupato e bevitore, trasformarsi a poco a poco, dopo l’incontro con un vecchio compagno d’armi, in un convinto seguace di una setta islamica, che impedisce all’uomo di stringere la mano a una donna e di avere rapporti prematrimoniali con lei. La situazione fra i due giovani si andrà deteriorando a poco a poco.
LA CHIAVE DI SARA
Tratto dal best-seller della scrittrice Tatiana de Rosnay, dal titolo originale “Elle s’appelait Sarah”, questo film ricostruisce la storia di una famiglia e di una casa che nasconde un terribile segreto, a seguito del rastrellamento del Vélodrome d’Hiver - il più imponente che ebbe luogo in Francia durante la seconda guerra mondiale - luogo che ospitò migliaia di ebrei parigini in condizioni disumane prima che venissero deportati nei campi di concentramento. La stessa polizia francese - oltre 9.000 tra gendarmi e poliziotti - venne mobilitata per partecipare all’odiosa operazione dal regime di Vichy, nel 1942. Julia Jarmond, una giornalista americana naturalizzata in Francia, che sta scrivendo un servizio sui fatti del Vél’d’Hiv per il suo giornale, s’imbatte in una pista che cambierà per sempre il suo destino, attraversato da quel momento, da un filo rosso che la condurrà fino a Sara, attraverso una serie di ricerche, riconoscimenti e rivelazioni che porteranno Julia a scegliere una strada indipendente da quella del marito. Ennesima grande interpretazione dell’attrice inglese Kristin Scott-Thomas.
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