Donne, droghe e violenza: l’intangibilità delle 'bambole di pezza' - di Anna Paola Lacatena*
L'impatto del craving sulle donne, la catena di abusi, la patologia: una lettura al femminile delle connessioni tra legalità e tossicodipendenze per conoscere ed evitare l’azione di victiming blaming
Mercoledi, 30/12/2020 - La medicina di genere ha di recente acceso i riflettori su come le donne siano maggiormente esposte a possibili reazioni avverse ai farmaci, il tutto attribuibile al diverso metabolismo e ai processi di assimilazione (1,2,3,4,5,6). Analogamente, l’abuso di farmaci – soprattutto antidepressivi, tra i quali gli inibitori del re-uptake della serotonina - o di sostanze illecite determinano nelle donne la comparsa di effetti tossici superiori rispetto all'uomo(7).
Dalla Relazione annuale dell’Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze di Lisbona (OEDT) per l’anno 2020, però, le donne rappresentano mediamente il 20% dei pazienti che si sottopongono a un trattamento della tossicodipendenza.
Le ragioni di una percentuale così contenuta rispetto a quella relativa alla componente maschile dell’intera utenza che afferisce ai Servizi pubblici sono diverse e possono includere problemi di accesso e di adeguatezza dei servizi specializzati oltre a esigenze più complesse che richiedono interventi mirati e differenziati in base al genere.
Il problema non è nuovo, se si pensa che già nel 2006 l’allora direttore dell’OEDT Wolfgang Götz affermava: «Sono trascorsi più di vent’anni da quando i governi europei hanno chiesto di prestare attenzione alle problematiche legate al genere nel campo della droga. Oggi, un riconoscimento generale dell’importanza di questo problema deve ancora riflettersi in una prassi comune. Il messaggio è chiaro: i nuovi servizi devono rispondere al fatto che la differenza di genere incide sui tipi di problemi provati dai singoli così come sulla loro disponibilità a sottoporsi al trattamento e sui tipi di servizio che si riveleranno efficaci.»
Dal documento “Women and gender issues related to drugs (2019)” dello stesso Osservatorio si desume che le donne consumatrici di droghe subiscono uno stigma più pesante degli uomini perché disconfermanti i loro più consueti (?) ruoli di madri e caregiver, fino ad essere percepite come sessualmente più promiscue e disponibili.
Non è difficile comprendere come lo stigma possa esacerbare il senso di colpa e la vergogna così come servizi discriminatori e non di supporto possano scoraggiare la ricerca di aiuto.
Quasi sincronicamente lo stigma, la dipendenza da sostanze (legali o illegali), dunque, lo stato di soggezione e di vulnerabilità legati alle condizioni psico-fisiche e alle susseguenti esigenze declinate da quel fenomeno che va sotto il nome di craving - “comportamento incontrollato, focalizzato all’ottenimento della sostanza che ha prodotto e mantiene la dipendenza, qualunque sia il prezzo da pagare” (A. Tagliamonte e D. Meloni, Le basi biologiche della tossicodipendenza) - rendono le donne tossicodipendenti vere e proprie vittime di reati. «Avere un partner che fa uso di droghe può svolgere un ruolo significativo nell'inizio, nella continuazione e nella ricaduta del consumo di droga da parte delle donne. Influisce anche sulla loro esposizione alle infezioni virali trasmesse per via ematica e alla violenza. Gli uomini che fanno uso di sostanze possono non essere di supporto al trattamento e le donne possono temere la perdita della relazione se diventano libere dalla droga. Inoltre, rispetto agli uomini, le donne che fanno uso di droghe hanno maggiori probabilità di aver subito aggressioni e abusi sessuali e fisici da bambini o da adulti e di essere esposte alla violenza del partner.» (Women and gender issues related to drugs (2019) – Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (OEDT) http://www.emcdda.europa.eu/topics/women).
Se da una parte l’essere stata vittima di violenze e abusi determina un maggior rischio per le donne di sviluppare dipendenza da sostanze (8,9), con effetti più importanti sul corpo e sulla psiche, dall’altra l’essere dipendente dalle sostanze espone le donne a perpetuare la catena di abusi, molestie e violenze sessuali - con la tragica conseguenza, tra le tante, di arrivare a non riconoscerle più come tali.
Nell’effetto devitalizzante e malevolo della violenza, la donna tossicodipendente perde la capacità di vedersi in un continuum passato-presente-futuro ormai quasi del tutto compromessi i sistemi di significato e i legami che stanno alla base del senso di sé (10).
Se la Legge definisce come aggravante la somministrazione della sostanza stupefacente, all’insaputa della vittima degli abusi, al fine di piegarne la volontà e la resistenza, diverso è il caso di un’assunzione spontanea o comunque per causa non imputabile all’agente.
La fattispecie è ritenuta idonea ad integrare il delitto di violenza sessuale, rientrando tra le condizioni di inferiorità psichica o fisica, previste dall'art. 609-bis, comma 2, n. 1, c.p., anche quelle determinate dalla volontaria assunzione di alcolici, narcotici o stupefacenti (Cass. pen., Sez. III, 13 febbraio 2018, n. 16046). La stessa, però, non implica la configurabilità dell'aggravante di cui all' art. 609-ter, comma 1, n.2, c.p. prevista nel caso di un uso strumentale alla violenza sessuale ovvero debba essere il soggetto attivo del reato che usa l'alcol o la droga per la violenza, somministrandoli alla vittima. In estrema sintesi, l'uso volontario incide sulla configurabilità della violenza sessuale ma non nella sua forma aggravata (Cass. Pen., Sez. III, 19 gennaio 2018, n. 32462). Conseguentemente, così come confermato dalla più recente sentenza della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione del 24 marzo 2020, n. 10596, «se la droga è assunta dalla vittima senza alcuna istigazione o agevolazione da parte dell'imputato deve escludersi che questi abbia costretto o indotto la prima a compiere o subire atti sessuali con l'uso di sostanze alcoliche o stupefacenti. Il ricorrente, piuttosto, ha approfittato (anche) dello "stordimento" della vittima per compiere gli atti sessuali.»
In questa zona d’ombra sembra delinearsi una questione ad oggi misconosciuta: l’uso di sostanze non è la patologia. La dipendenza lo è.
Lo spartiacque è rappresentato proprio dal craving: «un sintomo patognonomico di tossicodipendenza. La tossicodipendenza è una malattia cronica ad andamento recidivante. Il craving può comparire in tutta la sua violenza espressiva anche durante una fase protratta di remissione. In questo caso sembra sorgere dal nulla; ma è la memoria risvegliata da uno stimolo esterno o da un sogno, che lo suscita. Il craving compare solo se la sostanza che ne costituisce l’oggetto è reperibile. Non compare in un tossicodipendente detenuto in un carcere di massima sicurezza. La notizia di una particolare situazione di disponibilità, come l’offerta di una dose fatta da un amico, costituisce lo stimolo più efficace nell’interrompere una fase di remissione in un eroinomane. La boccata di aroma che consegue all’accendere la sigaretta dell’amico è la frequente, banale causa di ricaduta del fumatore astinente. Non è vero, quindi, che il craving può assumere il carattere di sintomo primario, endogeno, analogo alla ricaduta in uno stato depressivo.»(A. Tagliamonte e D. Meloni, http://www.sims.it/tagliam.htm, consultato il 28 dicembre 2020). Considerando che il craving è senza dubbio un sintomo di tossicodipendenza e che la tossicodipendenza è uno stato di intossicazione cronica sostenuta da un farmaco di abuso, dovremmo concludere che lo stesso è un sintomo ineluttabile di questa forma di intossicazione.
La cosiddetta appetizione patologica è, dunque,declinabile come l’irresistibile desiderio di assumere una sostanza - impulso in merito al quale la persona non ha nessun tipo di controllo - senza la quale non cesserebbero sofferenza psichica e fisica.
Secondo l’indagine sulla violenza contro le donne condotta dalla FRA (European Union Agency for Fundamental Rights) nel 2014 non soltanto la stragrande maggioranza delle vittime non denuncia ma neppure entra in contatto con il mondo della giustizia e con altri servizi a fronte di circa 13 milioni di donne (7%) nell’UE che hanno subito violenza fisica nel corso dei 12 mesi precedenti le interviste dell’indagine. Si tratta nell’UE del 2 % delle donne di età compresa tra i 18 e i 74 anni.
A livello nazionale, attraverso l’Indagine sulla Sicurezza delle donne dello stesso anno, l’Istat informa che i tassi di denuncia riguardano il 12,2% delle violenze da partner e il 6% da quelle da non partner.
Se poi si tratta di donne tossicodipendenti, in tutta l’Unione Europea continuano a mancare dati esaurienti e comparabili, sebbene apparirebbe presumibile una percentuale ancora più ridotta di donne che denunciano.
Alcuni studi mettono in evidenza che le vittime di abusi sessuali, modificate dalla violenza hanno maggiori probabilità di riportare una diagnosi di disturbo da uso di sostanze, depressione, disturbo post-traumatico da stress e disturbo borderline di personalità (11,12,13).
Questo relativamente a ciò che precede l’avvio della carriera tossicomanica. La violenza del dopo, quella giocata sull’offerta di sostanza non può dirsi meno violenza.
Al di là della questione della cosiddetta “vittimizzazione secondaria” (o post-crime victimization) (14) a cui le donne vittime di violenza sono sottoposte da parte dell’istituzione, fortissima è l’azione di victiming blaming – termine coniato da William Ryan nel 1971- ossia il riversare la responsabilità di quanto subito sulla vittima stessa. È indubbio come questo fenomeno ricada su alcune tipologie di donne più che su altre.
Il gip Tommaso Perna, convalidando il fermo e disponendo la custodia cautelare in carcere dell’imputato principale di quello che i media hanno ribattezzato come la vicenda della “Terrazza sentimento”, descrive con dolorosa intensità il corpo della vittima: «… sembra in alcuni frangenti un corpo privo di vita, spostato, rimosso, posizionato, adagiato, rivoltato, abusato, come se fosse quello di una bambola di pezza.»
È questo il caso del connubio donne - droghe - violenza e del reiterarsi dell’ingenerosa e offensiva espressione: … se l’è andata a cercare!
Potrebbe essere andata a cercare la sostanza stupefacente, certamente non la violenza. Renderle coincidenti è l’ennesimo atto di discredito e di disvalore, nonché l’ennesima offesa perpetrata a danno di chi sente già forte l’autosvalutazione.
Se è già difficile denunciare per qualsiasi donna vittima di violenza, per la donna tossicodipendente la difficoltà si accentua, ritrovandosi a: dover governare le conseguenze dello stigma sociale, essere costretta a far conoscere la propria condizione di dipendente patologica, riconoscere la violenza come tale e non come condizione inevitabile del rapporto uomo/donna nel consumo di droga, essere impossibilitata a dimostrare lo stato di astinenza al momento della violenza – condizione questa che invece dovrebbe essere considerata un’aggravante.
Tutelare queste donne rese ancora più vulnerabili e fragili dalla sostanza significa poter partire dalla possibilità di escludere l’automatismo tra la volontaria assunzione di stupefacenti ed il consenso all’atto sessuale così come si evince dalla Legge (Sentenza n.50305 del 2018 della IV Sez. della Corte di Cassazione penale) ma evidentemente non dal sentire comune.
Pur essendoci buone prassi che possono servire da modello, il problema da affrontare non è individuare il tipo di servizi di cui le donne necessitano, ma piuttosto, come assicurare che questo tipo di cure specifiche diventi più facilmente accessibile e di maggiore disponibilità.
Chi intende proteggere queste donne, infatti, deve fare i conti inizialmente con la cultura dominante alimentata da una disinformante informazione e successivamente con la disistima e con la mancanza di fiducia delle stesse. Deve guardarle in viso e ascoltarle per permettere loro di andare oltre la propria condizione di vittima.
Lasciarle senza una risposta significherebbe impedire il processo di costruzione (o ricostruzione) di un Sé integro e organizzato, condannandole al ruolo di vittime sacrificabili e (im)mutabili… come bambole di pezza.
di Anna Paola Lacatena
Sociologa e Coordinatrice del Gruppo “Questioni di genere e legalità” per la Società Italiana delle Tossicodipendenze (SITD)
Bibliografia
1. Clayton JA, Collins FS. Policy: NIH to balance sex in cell and animal studies. Nature 2014; 509: 282-3
2. Farkas RH, Unger EF, Temple R. Zolpidem and driving impairment--identifying persons at risk. N Engl J Med 2013; 369: 689-91
3. Franconi F, Brunelleschi S, Steardo L, Cuomo V. Gender differences in drug responses. Pharmacol Res 2007; 55: 81 95
4. Franconi F, Campesi I. Sex and gender influences on pharmacological response: an overview.Expert Rev Clin Pharmacol 2014; 7: 469-85
5. Franconi F e Campesi, I. Farmacologia di genere. Il Pensiero Scientifico Editore, Milano, 2018
6. Graziani M, Nencini P, Nistico R. Genders and the concurrent use of cocaine and alcohol: Pharmacological aspects. Pharmacol Res 2014; 87: 60-70
7. Quaderni del Ministero della Salute, n.26 aprile 2016- Il genere come determinante di salute. Lo sviluppo della medicina di genere per garantire equità e appropriatezza della cura, pag. 74
8. Winhusen TM, Kropp F. Psychosocial treatments for womenwith substance use disorders, in «Obstetrics & Gynecology Clinics of North America», 2003, 30: 483-499.
9. Liebschutz J, Savetsky JB, Saitz R, Horton NJ, Lloyd-Travaglini C, Samet J.H. The relationship between sexual and physical abuse and substance abuse consequences, in «Journal of Substance Abuse Treatment», 2002, 22(3): 121-128
10. Bruno ST.Le operatrici e gli operatori di fronte all’impatto traumatico della violenza interpersonale, 2008 (https://www.spi-firenze.it/bruno-t-s-2008-le-operatrici-e-gli-operatori-di-fronte-all-impatto-traumatico-della-violenza-interpersonale/ consultato il 27 dicembre 2020)
11. Brown G,Anderson B., Psychiatric morbidity in psychiatric inpatients with childhood histories of sexual and physical abuse, Am. J. Psychiatry 148:55-61 (1991)
12. Herman J, Perry JC., and van der Kolk, B. A., Childhood trauma in borderline personality disorder, Am. J. Psychiatry 146:490-495 (1989).
13. Duncan RD, SaundersBE, KilpatrickDG et al., Childhood physical assault as a risk factor for PTSD, depression and substance abuse: findings from a national survey, Am. J. Orthopsychiatry 66:437-488 (1996)
14. Campbell R, Raja S., “Secondary Victimization of Rape Victims: Insights From Mental Health Professionals Who Threat Survivors of Violence”, in Violence and Victims, 1999, vol. 14, No. 3, p. 262.
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