Il caso internazionale (dimenticato) della Lady simbolo di libertà per la Birmania. La condanna a 23 anni è praticamente a vita perchè Aung ha 77 anni
Fin qui la – necessaria – biografia della politica (leggasi “donna che fa politica”): escluso che, se si fosse trattato di un uomo sarebbe finito desaparecido, la donna politica perseguitata non porta connotazione di genere se non si vuole sottolineare l’immagine di questa orientale che non si può evitare di ammirare anche per il suo carattere: una donna che stabilisce in ordine gerarchico i valori, mettendo al primo posto quello che chiamiamo il dovere: il rientro per rispetto della mamma da assistere, poi l’abbandono del marito ammalato di cancro e che ha rifiutato di rivedere per non danneggiare “la causa” a cui si è votata, del suo popolo che ha collocato le proprie aspettative nella sua persona.
Gli orientali hanno una diversa educazione, ma questi atti di eroismo sono “sentiti” da tutti perché le donne dovrebbero strapparsi il cuore solo per la famiglia non per i loro concittadini e i propri ideali.
Comunque possiamo usare il termine eroismo.
Quello che non è eroico resta il comportamento degli Stati democratici, sostenitori della discriminazione nei diritti umani e nel diritto internazionale. La dittatura militare di Myanmar – National Unity Governement – ha compiuto nell’ultimo colpo di stato repressioni che hanno procurato 11.000 morti, oltre 20.000 carcerati, “punizione collettive” ovvero distruzioni di coltivati, allevamenti ecc.. Inoltre ha soppresso il partito di Aung Sao Suu Kyi e aveva promesso il rilascio di 2.200 prigionieri politici in maggio, ma non c’è il nome di Aung.
La condanna a 23 anni è condanna a vita: Aung ha 77 anni e la sua non è stata una carriera, ma una personificazione del simbolo di libertà per il paese birmano in cui gli oppositori si organizzano nella clandestinità, aiutati dalla solidarietà sporadica di simpatizzanti e studiosi che “lamentano” la tolleranza di una situazione di estrema illegittimità.
Si dice che – a prescindere dall’ONU che la parte sua la fa, ma non può garantire la maggioranza dei voti a sostegno di una risoluzione a cui nessuno – tanto meno i più potenti, gli USA che l’hanno firmata – vuole mettere mano. L’ASEAN (a guida Indonesia), si dice, non può far nulla perché delibera per consenso ed è divisa. La Cina ha mandato un osservatore nel Nord, dove i Rohinga musulmeni costituiscono un altro problema annoso.
Ma mentre combattiamo una guerra e prevediamo di partecipare ad altre, in Birmania, uomini e donne come noi, sono soli.
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