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Donne che non rientrano al lavoro

Donne che non rientrano al lavoro

Istat - Negli ultimi decenni, è cambiato il modello di partecipazione femminile al mercato del lavoro

Rosa M. Amorevole Venerdi, 19/08/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Agosto 2011

L’ISTAT ci consegna un ritratto non certo consolante per quel che riguarda il mercato del lavoro. Per le donne:

- l’occupazione, pur rimanendo stabile, peggiora la qualità del lavoro: diminuisce l’occupazione qualificata, tecnica e operaia (- 170 mila unità), ed aumenta soprattutto quella non qualificata (+ 108 mila unità). Sono soprattutto italiane impiegate nei servizi di pulizia a imprese ed enti, di collaboratrici domestiche e assistenti familiari straniere;

- è in crescita il part time (+ 104 mila unità), prevalentemente involontario e concentrato in attività che mal si conciliano con i tempi di vita come commercio, ristorazione, servizi alle persone;

- il peggioramento della qualità del lavoro riguarda soprattutto le più istruite, alle quali si richiede un qualifica più bassa di quella posseduta. Sono infatti il 40% fra le laureate (contro il 31% gli uomini);

- i salari femminili sono inferiori a quelli maschili (tra il 10 e il 20%).

Negli ultimi decenni, è cambiato il modello di partecipazione femminile al mercato del lavoro: le donne entrano in età più avanzata e si caratterizzano per aspirazioni e istruzione più elevate e per l’intenzione di non smettere di lavorare in futuro. Ma le statistiche rilevano che, tra le madri, il 30% abbandonano il lavoro, metà delle quali alla nascita del primo figlio, pur registrando la diminuzione del fenomeno nelle generazioni più giovani.

Secondo l’indagine su “Uso del tempo”, oltre la metà delle interruzioni dell’attività lavorativa per la nascita di un figlio non dipendono da una libera scelta da parte delle donne. Nel 2008-2009, circa 800 mila madri hanno dichiarato che nel corso della loro vita lavorativa sono state licenziate o sono state messe in condizione di doversi dimettere in occasione o a seguito di una gravidanza. Soprattutto al sud, tra le più giovani, e tra le lavoratrici con più basso livello scolare.

Tra le madri costrette a dimettersi (secondo l’ISTAT sono in crescita anche le c.d. “dimissioni in bianco”), in media il 40,7% ha poi ripreso l’attività. Non in maniera omogenea sul territorio nazionale: su 100 madri che hanno abbandonato il lavoro o sono state costrette a farlo, a nord riprendono a lavorare in 51, soltanto 23 nel sud del Paese. Perché le gravidanze non sempre appaiono gradite, non solo da parte dei datori di lavoro ma anche da parte di colleghi e dirigenti. Lo confermano le risposte arrivate al sondaggio che evidenziano come, in molti casi, l’atmosfera si modifichi intorno alla donna in attesa, fino a condurla alle dimissioni nella fase del rientro dopo la nascita. Quando ciò non avviene, molto spesso sembra essere legato più alla necessità di resistere ad una reale disponibilità di accoglienza al rientro.

E’ ormai risaputo che in Italia il tasso di occupazione delle donne (46%) è decisamente tra i più bassi dell’Unione Europea, territorio in cui il valore medio è del 58,1%. Ma il divario aumenta quando i dati sono riferiti alle lavoratrici madri: in Europa, mediamente, le madri lavorano più che le omologhe italiane ed anche avendo figli compresi tra i 6 ed i 12 anni, registrano tassi di occupazione molto distanti da quelli nostri.

I dati non sono certo incoraggianti, ma occorre non mollare!

La fotografia del paese deve fornirci lo stimolo per promuovere cambiamenti che permettano a donne e uomini di tenere insieme il lavoro e la cura.

Al contempo deve suggerire alle imprese di sperimentare forme innovative di organizzazione che permettano la conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro, per donne e uomini naturalmente.

La dove si sta sperimentando, emergono interessanti fattori positivi, uno tra tutti: l’ aumento della produttività. Perché, affermano ormai anche alcuni prestigiosi analisti economici, “puntare sull’occupazione femminile rappresenta un vantaggio competitivo e, in tempi di recessione, può accelerare l’uscita dalla crisi”.

Noi lo crediamo.



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