Migrazione al femminile: la comunità colombiana e la propensione all'auto-imprenditorialità
Dora Maria Peñaloza è colombiana. E' arrivata in Italia nel 1990, con in tasca una laurea in ingegneria delle telecomunicazioni. Si è specializzata in internazionalizzazione di impresa, diventando ben presto una consulente preziosa per gli imprenditori italiani che volevano guardare ad altri mercati, a partire proprio dalla Colombia e dai paesi latinoamericani. E così questa donna vulcano, piena di energia ed entusiamo, ha deciso di fondare la sua impresa ABCnet, iniziando a collaborare con decine di imprese italiane, partecipando a progetti europei, ricevendo premi e riconoscimenti per le sue capacità professionali e la qualità dei servizi offerti dalla sua azienda. Non una passeggiata di salute, bensì tanto impegno e costanza, oltre alla necessità di conciliare il ruolo di madre e moglie con quello di imprenditrice.
Come Dora, sono tanti i migranti che hanno deciso di aprire un'azienda in Italia. Tra i 20mila colombiani residenti nel belpaese, circa millecinquecento sono imprenditori (due su tre donne), ma guardando alla globalità del fenomeno, sono circa 500 mila le imprese con un titolare straniero, che rappresentano l'8,2% del totale e contribuiscono per il 12,8% al PIL nazionale. Numeri enormi se messi a paragone con un paese limitrofo come la Spagna che conta 30.000 imprese intestate a stranieri. Alla base di quell'8,2%, che si stima sia in crescita, c'è sicuramente anche la concreta difficoltà per i migranti a trovare un lavoro dipendente e stabile nel belpaese, motivo che li spinge (così come tanti giovani adesso guardano alle possibilità di creare una "start-up") a provare la strada dell'autoimprenditorialità.
Non solo ragioni negative però concorrono alla voglia di fare impresa. Forse anche una maggiore propensione per il rischio e meno vincoli: "Male che vada me ne torno al mio paese!", questo è il pensiero che corre nella testa dei migranti che aprono un'azienda, dice Dora. E prosegue: "Servono una capacità di adattamento enorme, una forte propensione al cambiamento, collaborazione, solidarietà, una grande dose di ottimismo, e la certezza di poter contribuire alla crescita dell'Italia. Ed è una cosa che verifico quotidianamente, quando gli imprenditori italiani con cui lavoro, si stupiscono perchè non avevano pensato ad un progetto o a un'idea che io, venendo da una cultura differente e conoscendo il mercato latinoamericano, so come rendere possibile. Ma non è solo una questione di numeri e fatturati, credo che noi imprenditori stranieri possiamo contribuire al valore intangibile di questo paese, ad un'innovazione culturale collettiva."
Le parole di Dora sono supportate da due ricerche condotte ultimamente e presentate nell'ambito di un incontro organizzato dall'Istituto Italiano Latino Americano. La dott.ssa Alessandra Ciurlo, ricercatrice presso l'Università Gregoriana di Roma, ha intervistato centocinquanta tra uomini e donne, appartenenti alla comunità colombiana (in tutto circa 20 mila persone, di cui il 64,7% sono donne), per analizzarne il contesto di provenienza, il percorso migratorio e le prospettive future. E' emersa una grande varietà di profili, anche tra le donne: ci sono nubili, sposate con connazionali o con italiani, sole con figli a carico, che in alcuni casi restano in Colombia mentre in altri vivono in Italia con loro. Nonostante le differenze di età e ceto sociale, rispetto ai connazionali maschi sono tutte accomunate da un aspetto: l'importanza che ricoprono all'interno del nucleo familiare. I dati raccolti hanno evidenziato quanto ancora il ruolo di cura delle donne colombiane sia importante sia se emigrano con la prole, sia se questa rimane nel paese di origine. Le donne sono ancora gravate da maggiori responsabilità, e quando partono, sono altre donne della famiglia a prendere il loro posto nelle mansioni di accudimento. Questa scarsa partecipazione degli uomini alla vita familiare fa si che le donne che migrano abbiano maggiori difficoltà a costruire un proprio percorso di emancipazione, restando invece ingabbiate nello stereotipo negativo della "madre che abbandona". Nonostante questo, molte donne idealizzano la famiglia di orgine, che rimane un punto fermo e incrollabile, a causa delle poche chance di realizzazione personale che trovano in Italia, dove, ad esempio, è quasi impossibile farsi riconoscere un titolo di studio estero che permetta loro di accedere a lavori meno usuranti e pagati meglio.
Però pur essendoci molte donne migranti che si dedicano in Italia al lavoro di cura di bambini, anziani e disabili, ce ne sono altre che si lanciano nel mondo dell'impresa. La dott.ssa Isabella Corvino, ricercatrice del CeSPI, che si è occupa dell'inclusione finanziaria dei migranti in Italia, ha dedicato il suo intervento proprio all'analisi delle ragioni che spingono un migrante ad aprire un'azienda. La ricercatrice ne ha individuate almeno tre: la volontà di emanciparsi economicamente, la voglia di valorizzare le proprie capacità e la cultura di provenienza e la percezione di potersi garantire così una maggiore sicurezza economica e sociale. La maggior parte delle imprese è legata al commercio di beni, all'arte, alla moda, al settore culturale o a quelle attività che in termine tecnico fanno parte della "vacancy chain" ovvero le attività che gli italiani non vogliono più svolgere. Le difficoltà che questi imprenditori trovano sul loro cammino non sono comunque poche, a cominciare dalla capacità di reperire le risorse economiche necessarie e di essere abbastanza credibili per poter accedere al sistema creditizio.
Il tema dell'imprenditoria migrante è dunque un filone interessante da seguire e di grande importanza in prospettiva presente e futura. Sostenuto in alcuni casi da fondi ad hoc, viene monitorato da ricerche e analisi nazionali come il Rapporto Immigrazione e Imprenditoria 2014, pubblicato da EIDOS Edizioni, che verrà presentato il prossimo giovedì 10 luglio a Roma presso l'Auditorium Via Rieti 13 nei pressi di Piazza Fiume.
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