Melchiorri Cristina Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2006
Da 5 anni sono programmatrice in un’azienda informatica che produce videogiochi, il lavoro è interessante e stimolante e il rapporto con i colleghi ottimo. Le premetto che, per varie vicissitudini personali, ho dovuto frequentare le scuole serali per ottenere il diploma, glielo confido perchè nonostante le mie competenze, la disponibilità a fare straordinari e i complimenti rivoltimi dai colleghi e dal capo per l’ottimo lavoro, ogni volta che si prospetta una promozione questa viene offerta di solito a colleghi maschi e, in qualche caso, con uno status di anzianità minore del mio.
Le vorrei chiedere se, secondo Lei, nel 2006 e con la parità delle donne in ormai tutti i settori, anche nel settore delle nuove tecnologie dobbiamo vedere discriminazioni verso le donne.
Federica Parrini (Saronno, Mi)
Cara Federica,
non sei la prima donna ad essere brava tecnicamente, ma considerata non abbastanza brava per dirigere. Ti cito il caso ENIAC (Eletronic Numerical Integrator and Calculator), che gli storici della tecnologia considerano il primo computer elettronico.
Durante la seconda guerra mondiale, negli Usa, con gli uomini impegnati al fronte, un buon numero di donne hanno contribuito alla programmazione dei primi software. Ma la partecipazione femminile ha cominciato sensibilmente a diminuire con la crescita del settore, cioè quando gli uomini hanno percepito l’importanza e il valore economico legato alle nuove professioni informatiche.
Negli ambienti tecnologici, e scientifici più in generale, i capi vedono positivamente le donne diventare brillanti specialiste ma più difficilmente le avviano alla carriera direttiva.
Sembra quasi che alle donne sia riconosciuta una capacità innovativa, ma che non le sia riconosciuta la capacità di gestire l’innovazione.
Eppure le aziende più orientate allo sviluppo e ai profitti non possono prescindere dal vedere il mondo come è veramente, dentro e fuori l’azienda, composto da uomini, donne, persone di diverse culture, esperienze, estrazioni sociali, convinzioni e valori personali.
Prendiamo ad esempio la Philip Morris, colosso americano del tabacco, ma anche produttore di alimentari e birra,che ha assunto la politica del ”diversity management” nella propria strategia industriale, con questo slogan “Per noi significa business”.
Questa azienda ha calcolato i costi associati a una “non gestione delle diversità”, come ad esempio difficoltà di comunicare fra manager giovani e più anziani, discriminazioni nelle carriere fra uomini e donne, fra neri e anglosassoni,fra sudamericani e indiani. E l’incapacità di collaborare fra persone diverse o di valorizzarne le differenze produce incapacità di gestire linee di business in realtà e stati diversi, produce scelte discriminanti nei confronti di certi segmenti di clientela e quindi la perdita di quote di mercato.
Il “diversità management” va oltre il concetto di dare pari opportunità a uomini e donne in azienda, significa considerare la diversità un valore e non una complicazione un po’ fastidiosa da gestire. Spesso si sente dire che il potere è qualcosa di estraneo alle donne, che non è una loro priorità. Credo invece che sia giunto il tempo di porlo all’ordine del giorno.
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