Teatro / “La borto” - Saverio La Ruina, autore e regista calabrese, solidarizza con le donne. Soprattutto quelle meridionali
Mirella Caveggia Venerdi, 17/09/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2010
Per entrare nel corpo, nell’anima e nella mente di una donna, Saverio La Ruina non ha bisogno di trucchi e di travestimenti. L’attore, regista, drammaturgo calabrese si concentra con una sensibilità così delicata e solidale sulla condizione delle donne da identificarsi con loro alla perfezione senza assumerne gesti, tratti, registri vocali di genere. E soprattutto appare sorprendente quando si accosta con affettuoso rispetto alle donne dell’Italia meridionale, dove si impongono ancora l’oppressione e il dominio maschili.
L’ultimo monologo teatrale di questo artista riconosciuto dal Premio Ubu “migliore attore”, “migliore autore di un nuovo testo italiano” e meritevole di un premio speciale in qualità di responsabile della sua compagnia Scena Verticale, si intitola “La borto”: proprio così, senza apostrofo. Spettacolo già noto e applaudito, il monologo, tutto parlato nel dialetto calabrese ora aspro ora dolcissimo, è entrato nel giugno scorso nel cartellone del Festival delle Colline torinesi, che con Saverio La Ruina ha una lunga dimestichezza (il debutto nella rassegna era avvenuto con l’originale e spietato “Amleto, ovvero cara Mammina”).
In questo spazio estivo il bravo attore ha portato il racconto in prima persona di un’anziana donna di paese, costretta poco più che tredicenne ad andare sposa ad un uomo imposto dalla famiglia, un essere rozzo, brutto, ottuso e per di più sciancato, che l’ha ingravidata di continuo. A 28 anni, racconta la protagonista, aveva già avuto otto figli da un marito a cui non c’era mezzo di sottrarsi. Stanca della pancia che le aveva sempre nascosto la vista dei piedi, a un certo punto si è decisa a far ricorso ad una pratica abortiva.
Il resoconto farcito di rassegnazione è pieno di intensità, di sincerità, di colore. Punteggiato di passaggi ingenui e di segni di incolpevole ignoranza, fa sorridere per la caparbietà mite e puntigliosa della donna; ma lascia affiorare molta tristezza quando si completa con l’evocazione da parte di lei della nipote, che a quindici anni si è trovata ad affrontare la stessa dolorosa esperienza. Certo, in virtù della legge attuale è capitata in un’asettica struttura ospedaliera dove i ferri da calza e il prezzemolo non hanno posto; il livore e il malanimo sono ancora in agguato e le donne, spesso costrette ad assumere la decisione sofferta di un’interruzione di gravidanza, non hanno nessuno al loro fianco.
Il monologo, recitato dall’attore seduto su una vecchia sedia, abbraccia l’elemento tragico, ma anche comico di una vicenda dai confini ristretti, che però attraversa in fondo tutto il Novecento. Gli accenti del racconto sono pacati, a volte vellutati, ma nel suo flusso vibra un’energia solida grazie al talento dell’attore e al dialetto calabrese che qui ha una sua potenza e un’espressività che la lingua nazionale forse non potrebbe esprimere. Se da un lato a causa degli accenni ironici la confessione teatrale sembra schiarire il suo sfondo di oscurantismo, dall’altro induce ad osservare che a distanza di qualche generazione non si sono verificati molti cambiamenti. Rimane il dubbio che la donna dopo che “ha passato la dogana dove è spogliata e misurata con gli occhi maschili”, non esce ancora del tutto liberata.
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