A tutto schermo - Storie di donne in cerca di libertà nei bei film ‘Caramel’ e ‘Miel et cendres’, due film con analogie narrative e stili diversi
Colla Elisabetta Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2008
Due registe donne, due paesi con tradizioni e convenzioni assai vicine pur se dislocati in aree geografiche diverse, il Libano e l’Egitto, due film con analogie narrative e simboliche ma estremamente diversi nello stile. Denominatore comune: la volontà di descrivere la vita, i desideri, le umiliazioni, gli amori, la forza delle donne, in quei paesi come ovunque nel mondo, con sensibilità e coraggio, strappando via il velo di Maya che avvolge la complessa realtà di tutti i giorni per rimandare, troppo spesso, inautentiche apparenze sociali. Il primo film, Caramel, della regista e attrice libanese trentaduenne Nadine Labaki, presentato l’anno scorso a Cannes alla Quinzaine des realisateurs ed oggi distribuito nelle sale italiane, ha fatto innamorare l’Europa per il tocco leggero ed aggraziato, sorridente ma profondo, con cui si racconta un aspetto sconosciuto del Libano moderno, al di là delle cicatrici ancora aperte della guerra. Cinque donne lavorano in un istituto di bellezza, nella calda luce mediorientale di una Beirut inedita, ed ogni evento del film gravita intorno a questo luogo di sussistenza ed amicizia, chiacchiere e risate, mentre si effettuano depilazioni catartiche con cerette al caramello (zucchero, acqua e limone, anche in Italia si usava!) e si smaltano unghie (viene in mente Almodovar): Layale (la stessa regista Nadine Labaki), proprietaria del salone ha una storia d’amore con un uomo sposato finché non conoscerà sua moglie, Rima (Joanna Moukarzel) è attratta dalle donne ma non accetta l’idea dell’omosessualità né può parlare con le sue amiche di un simile tabù, Nisrine (Yasmine Al Masri) sta per sposarsi con un ragazzo piuttosto conservatore e deve “ricostruire” in fretta la perduta verginità, Jamale (Gisèle Aouad), non più giovanissima, colleziona provini per fare l’attrice, costantemente assillata dall’aspetto fisico, e infine Rose (Siham Haddad) la sartina, il personaggio sicuramente più poetico, perderà l’ennesima occasione di essere felice per occuparsi della sorella demente Lili (Aziza Semaan). “I bombardamenti israeliani sono arrivati quando il film era al montaggio - ha affermato la regista che ha terminato l’opera all'estero - ma, una volta finito, ho voluto considerarlo un atto di resistenza alla guerra e l’ho dedicato alla mia Beirut”. Il dipanarsi dei destini delle protagoniste è l’occasione per mostrare la società nelle sue sfumature, da diverse angolazioni: l’arbitrio vessatorio di alcuni poliziotti, i sotterfugi e le bugie cui le donne non sposate devono ricorrere per una notte in albergo, l’incapacità maschile di uscire da certi schemi precostituiti dalle famiglie.
Lo stesso universo di donne ribelli o in crisi verso regole e decisioni imposte da altri, ed il confronto spietato con un mondo maschile spesso cieco ed imprigionato in ruoli predefiniti, viene evocato nel secondo film cui si accennava, Miele e cenere (vincitore di numerosi premi e riconoscimenti internazionali) della regista Nadia Fares, trentaseienne di origine egiziana laureata in Lingue all’Università del Cairo. Anche se la tecnica e la resa cinematografica dell’opera sono decisamente essenziali, l’impatto del film è immediato, per il realismo talvolta crudo delle tre storie di donne portate sullo schermo con grande intelligenza, denunciando quanto ancora ci sia da fare nel nord Africa contemporaneo. Leila, Amina e Naima sono le tre protagoniste in cerca di liberazione: Leila, fuggita dal padre violento e rinnegata dal ragazzo che non ha avuto la forza per seguirla, decide di pagarsi gli studi in città conducendo una doppia vita: studentessa di giorno, prostituta di notte. Amina è un’insegnante che, in gioventù, ha sposato un uomo violento e pericoloso, che neppure conosceva. Naima, infine, è il personaggio che dà più speranza: è un medico e vive sola con la figlia, incarna la possibilità ma, professionalmente, è costretta a sottostare ad alcune imposizioni. “Molti mi chiedono se la società nordafricana è cambiata rispetto alla storia che ho raccontato in Miele e cenere - sottolinea la regista, che ha studiato cinema presso la New York University ed è stata assistente di Kieslowski e Zebrowsky - posso dire che, se da un lato si va evolvendo, lo fa molto lentamente e, soprattutto nelle zone rurali, le donne vivono ancora in condizioni di soggezione e sottomissione. Il film ha avuto molto successo in Egitto ed è piaciuto soprattutto agli uomini, probabilmente perché si sono rispecchiati nelle figure maschili e non si sono piaciuti. Ci tengo a precisare che non è un film contro gli uomini i quali, comunque, sono anche loro ingabbiati in schemi culturali dai quali vorrebbero tirarsi fuori e, per questo, ispirano empatia”. Girato a Tunisi per una produzione locale, Miele e cenere, sfortunatamente non è stato distribuito in Italia ma è stato presentato e premiato al Med Festival di Roma, dove è stato anche possibile incontrare la brillante regista. Ben vengano film come questi, che mostrano al mondo situazioni sommerse o poco visibili, ma anche desiderio di reazione, ironico, leggero, tragico, autodistruttivo, da parte di tante donne in cerca di vite migliori.
Teatro / Volevo vedere il cielo
Monologo in atto unico liberamente adattato da un testo di Massimo Carlotto. Messo in scena al Teatro dell’Orologio di Roma dalla Compagnia sarda “Effimero meraviglioso”, con la regia e l’adattamento di Maria Assunta Calvisi, il testo intende lanciare un messaggio forte contro i falsi miraggi di felicità e successo provenienti dal luccicante mondo dello spettacolo. “Ho lavorato con Carlotto - afferma la regista - per adattare questo testo nel modo migliore e da subito abbiamo pensato di trasportare l’azione dalla periferia torinese a quella della borgata romana. Il personaggio in scena è quello di una madre terribile, che spinge la figlia a tutti i costi verso un mondo che non le interessa, proiettando su di lei tutti i suoi fallimenti e desideri di riscatto. La storia avrà un epilogo tragico ma bisogna pensare, in un mondo di bisogni indotti, che anche la madre non è che una vittima di un sistema più complesso”. Una donna, frustrata e senza speranza, si racconta nel suo squallido appartamento alla periferia romana: a poco a poco, mentre descrive in un pittoresco gergo di borgata la disfatta della sua vita, le aspirazioni deluse, il lavoro come domestica e la dipendenza dall’alcool, rivela l’ultimo, terribile cruccio della sua vita: una figlia (che chiama semplicemente “la ragazzina”) priva di ambizioni e disinteressata a far carriera in televisione. Lei l’avrebbe voluta velina o miss, perché guadagnasse e non fosse costretta a fare la vita grama dei suoi genitori. “Volevo vedere il cielo, almeno un pezzettino - recita la protagonista, riferendosi alla nota canzone ‘Il cielo in una stanza’ - volevo che la mia ragazzina vedesse il cielo, fosse felice, almeno lei”. Niente più al mondo potrà rimettere a posto le cose”. S’intuisce, a poco a poco, la tragedia consumata in un raptus omicida, mentre la visione della figlia visita la madre in attesa della polizia. In scena la bravissima Miana Merisi, attrice di consumata esperienza, con la partecipazione della giovane Francesca Cara. Molte le divagazioni al femminile negli spettacoli della Compagnia, legati a personaggi evocativi di suggestioni, fra i quali ricordiamo Frida Kahlo e Grazia a Maria.
E.C.
Lascia un Commento