"... E si diventa anziani nello scendere più o meno inavvertitamente di corsa o nel salire con accorta circospezione?..."
Dodici venti assieme, il racconto di Matilde Tortora
Quali, quanti venti ci stanno accanto, se mai pure un vento può stare accanto a qualcuno? dove rincorriamo il futuro, nello scendere o nell’ascendere, nel fare le scale a quattro a quattro o gradino dopo gradino con passo meditato, con astute pause precorritrici, quatto quatto?
E si diventa anziani nello scendere più o meno inavvertitamente di corsa o nel salire con accorta circospezione? chi sono i compagni di discesa, di salita? Eolo astutamente fece sposare le sue sei figlie coi sei loro fratelli, affinché non si disperdessero e soffiassero troppo lontani, ma dove spira il vento e dodici venti assieme che spirano, che spinta riescono a imprimere, forse una spinta tale da stropicciare gli orli dei gradini come fossero panetti di burro da spianare?
I passi esistono solo quando vengono fatti? da fermi dove stazionano i nostri passi, sono essi muti puledri nella stalla, alunni zittiti nel banco a scuola, scoiattoli acquattati, infreddoliti sui rami, terribilmente affamati?
Il cinema più di tutti ha detto delle scale, il grande Hitch, la scala a chiocciola, la vertigine del doppio, il parossismo dell’innamoramento, l’inganno, l’autoinganno, Norma Desmond che dall’alto dello scalone della sua casa si offre all’ultimo ciak, il serpente che ogni scala sempre è, anche la più rettilinea, la danse serpentine, chi l’ha detto che le scale si svolgano solo in verticale e chi busserà a quella porta chiusa che si occhieggia da lontano e che ogni volta sembra chiamarci? per spifferarci che cosa infine?
Chi è davvero il campanaro che su in cima aziona quel frastuono, che rincorre un merito da appuntarsi al petto, un diploma fatto di piume di uccelli dilaniati dall’avere perso la rotta delle passioni, soprattutto di quelle che non furono agite, che restano sepolte nei cuori se pure un tempo vi erano state impresse a fuoco vivo.
Le scale: il banchetto perpetuo, restano le briciole, pochi ci fanno caso, ci si può scivolare, occorre fare attenzione. Amor pedestre, il rimbombo dei passi, gli scalini diminutio dell’intera scala, figli spuri di una grammatica atavica, siglata in noi già alla nascita, piedini puzzoncelli che tenerezza! auguri tanti, la scala musicale, l’interludio, la musica coi suoi gradini celestiali, Clerici Vagantes. Oh Carl Orff! Oh Bernstein, oh Mozart, oh voi tutti … che gelida manina, soffitte in cima a tante scale oppure i sottoscala, un bel dì vedremo levarsi un fil di fumo! e gradini finanche nel mare, orrori a non finire …
Perfino Dante dovette inerpicarsi, scendere sempre più giù e poi salire, ascendere, le scale hanno colori strani o li assumono man mano nel tempo, sono consunte a volte e perfino bisunte, sono però ben consapevoli di una certa loro eternità e vorrebbero poter parlare, metterci in guardia con le loro bocche di pietra, impiantito povero, graniglia o lussuoso marmo, con lo strato di polvere che li ricopre, con la luce che vi staziona ad intermittenza, che mai vorranno dirci le scale e quei dodici incestuosi sibilanti venti?
Immagine: Scale al 48 di Rue de Lille di Edward Hopper, 1906
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