Kurdistan turco - Hanno figli in prigione o desaparecidos e come le madri di Plaza de Mayo organizzano sit in e conferenze annuali
Emanuela Irace Domenica, 12/05/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2013
Le Madri della Pace premono sul governo turco di Erdogan e manifestano pacificamente una volta a settimana per denunciare la violenza di Stato che continua a decimare il popolo kurdo
Alcune sono mogli e madri dei Peshmerga, guerriglieri e guerrigliere della montagna, emblema della resistenza di un popolo che da oltre mezzo secolo combatte per il solo diritto di esistere
Strette l’una all’altra aspettano in silenzio di raccontare la propria storia. Sono le “Madri della Pace”. Mogli e madri dei martiri guerriglieri kurdi. Le incontro a Diyarbakir, storico capoluogo del Kurdistan turco, città dall’imponente cinta muraria lungo il corso del Tigri. Duecento km a nord dai confini con la Siria. Le stanze dell’associazione sono pulite e luminose. Tappeti per terra e bicchierini di the. Si entra senza scarpe. Ci aspettano. L’incontro è stato organizzato dalla Ong italiana Verso il Kurdistan, di Antonio Olivieri, che tra i molti progetti a sostegno della popolazione porta avanti da oltre dieci anni l’adozione a distanza delle Madri della Pace. L’emozione è forte. Anche quest’anno si rinnova la solidarietà. Sono di religione sunnita. Indossano un foulard bianco e si ispirano all’esperienza argentina delle madri di Plaza de Mayo, come loro, organizzano sit in e conferenze annuali. Lottano per avere giustizia e visibilità. Premono sul governo turco di Erdogan e manifestano pacificamente una volta a settimana per denunciare la violenza di Stato che continua a decimare il popolo kurdo. Hanno figli in prigione o desaparecidos. Parlano sottovoce reggendo tra le mani articoli di giornale e fotografie dei propri uomini, giovani e ingialliti dal tempo. Hanno il viso e il corpo segnato, difficile indovinarne l’età. Alcune sono mogli e madri dei Peshmerga, guerriglieri e guerrigliere della montagna, emblema della resistenza di un popolo che da oltre mezzo secolo combatte per il solo diritto di esistere. In Turchia i kurdi rappresentano la minoranza più cospicua. Da oltre mezzo secolo sono costretti a subire l’assimilazione violenta da parte di un Governo che pur volendo entrare in Europa continua a negare loro diritti elementari: parità di trattamento, uguaglianza giuridica e riconoscimento del proprio status nella Costituzione. “Mia figlia è stata uccisa insieme ad altri 15 guerriglieri l’anno scorso. Aveva 23 anni. L’esercito turco ha usato armi chimiche e sono tutti morti in maniera orrenda, ecco, guarda qui, c’è la sua fotografia “, dice la madre di Fatima Karain, mostrando un articolo di giornale con l’immagine della ragazza.
“Vogliamo pace e dignità per il nostro popolo” prosegue Serine Unat, madre di un ragazzo desaparecidos da 21 anni. Raccontano senza lacrime di interi villaggi dati alle fiamme, delle perquisizioni violente, delle torture e delle tante esecuzioni extragiudiziali compiute sotto i loro occhi: ”La violazione dei diritti umani in Turchia è all’ordine del giorno - spiega Serine -, noi cerchiamo di denunciare gli abusi e le atrocità compiute contro il nostro popolo ma le notizie non arrivano in Europa e quando accade, nessuno muove un dito. Ci sono troppi interessi economici”. Interessi che hanno condizionato anche l’Italia, come avvenne nel 1999 per mano di D’Alema. Quando il nostro Governo ricattato dalle lobbies commerciali turche - e contravvenendo alla Costituzione, art. 10 e 26 sull’asilo politico - si rese responsabile dell’arresto del leader del Pkk Ocalan, condannato a morte e tutt’ora in carcere a scontare una pena commutata in ergastolo. Una guerra silenziosa che non interessa alle cancellerie europee. Le Madri della Pace lo sanno e a ogni operazione militare fanno da scudo umano come forza di interposizione contro le violenze di polizia ed esercito turco. “Stiamo cercando di unirci alle madri dei soldati turchi che sono morti. Insieme vorremmo porre fine a una guerra che sembra non finire mai. Ho perso mio marito a 25 anni e adesso che sono vecchia piango la morte dei miei nipoti”. Leyla Astan ha trascorso la vita fuggendo. Prima dai villaggi rasi al suolo in montagna, poi dalle denunce dei vicini in città: “Facevano la spia perché la mia famiglia era ricercata. Mio fratello era presidente del partito Dep nella città di Barman. È stato ucciso in un agguato al mercato con la complicità della polizia locale. La sua è stata una esecuzione extragiudiziaria e da allora non c’è stata più pace per la mia famiglia”.
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