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(Dis)occupazione giovanile. Storie di precarietà nelle foto di Simona Hassan

(Dis)occupazione giovanile. Storie di precarietà nelle foto di Simona Hassan

Simona Hassan è l'autrice di "(Dis)occupazione giovanile - Italians do it better", progetto fotografico che ritrae i volti, e racconta le storie, di chi si nasconde dietro i numeri sulla precarietà, esistenziale e lavorativa.

Domenica, 12/04/2015 -
Elisa da Padova, 31 anni, dopo il tempo passato alla ricerca di un lavoro qualunque, ha deciso di investire nella sartoria, unica formazione che le interessa davvero. Serena, bolognese di 26 anni, laureata in Pubblicità, Editoria e Creatività d’impresa, dalle case editrici ha sempre ricevuto proposte di lavoro gratuito. Laura, invece, ha lasciato Napoli, dove non vedeva la possibilità di realizzare le proprie aspirazioni, per Milano. Dopo avere accumulato stage non retribuiti ed esperienze lavorative quasi sempre deludenti, Anna ora progetta di aprire una propria biscotteria.



Sono alcune delle storie raccolte da Simona Hassan, la giovane fotografa autrice del progetto “(Dis)occupazione giovanile – Italians do it better”, racconto corale e itinerante sulla generazione del lavoro flessibile, delle partite Iva e dei contratti a progetto. Attraverso diciassette città italiane, Simona ha ritratto le donne e gli uomini che si nascondono dietro i numeri del non-lavoro. Perché quel tasso del 42%, il livello più alto dal primo trimestre del 1977, nasconde e mette in silenzio le vite di chi un lavoro lo cerca. E di chi pure un impiego l’ha trovato, ma alla condizione della mancanza di tutele e diritti.



Quasi sempre fotografati nelle camere da letto, che per molti sono rimaste quelle di sempre, i protagonisti di “(Dis)occupazione giovanile” diventano la rappresentazione di una precisa condizione esistenziale, quella dell’attesa e della sospensione, dei vuoti da riempire. Così la stanza tutta per sé di un tempo è il segno di un legame, ancora troppo forte, che unisce al passato. Che definisce la dipendenza economica dal nucleo familiare, nonostante gli anni di studi già intrapresi e le figure professionali raggiunte.



Eppure, a differenza di quello che un colpo d’occhio poco accorto potrebbe rimandare, Simona non ritrae degli sconfitti. Non sono rassegnate a una condizione di impotenza, o alla non possibilità dell’azione, le voci ascoltate dalla Hassan. Al contrario, continuano a parlare e a progettare. A cercare il riconoscimento delle proprie aspirazioni, non accettando sempre il lavoro a ogni costo, anche quello dell’annullamento della libertà personale e dei diritti. Come Romolo e Carlotta che, a Santa Teresa di Gallura, hanno pensato e ideato uno spazio per la musica alternativo alle solite forme di turismo. O Valentina, diploma in fotografia e laurea in Lettere, co-fondatrice di Stavio, cooperativa che produce birra artigianale.



In “(Dis)occupazione giovanile – Italians do it better” rendi visibili i volti di chi si nasconde dietro le note percentuali della disoccupazione. Partendo da Bologna, e proseguendo attraverso diciassette città, hai raccolto trenta storie. “Parlo dei giovani sognatori che questo bel paese dovrebbero costruirlo, ma a cui hanno sottratto gli strumenti per farlo […] Poi parlo dei compromessi e delle ingiustizie a cui si sono dovuti abbassare tutti quelli che un impiego ce l’hanno, se così si può dire”, scrivi tu stessa. Come nasce l’idea di “(Dis)occupazione giovanile”?



L'idea di "(Dis)occupazione giovanile" nasce dal bisogno di ripartire dalle persone e dalle loro storie. Il problema del lavoro in Italia è aggravato anche da questo: ci si è dimenticati delle persone, dei bisogni, dei desideri e dei sogni che hanno. Noi, invece, abbiamo bisogno di parlare, di confrontarci, di guardarci negli occhi e sapere che non siamo i soli a vivere un periodo storico pieno di nuove difficoltà. Il progetto vuole mettere in primo piano le storie, le situazioni, le difficoltà che i giovani in Italia vivono nel loro quotidiano. I media e la politica non parlano mai di cosa vuol dire concretamente avviare un'attività senza avere alcuna garanzia, di che tipo di lavoro ci sia in giro (sottopagato, umiliante), di cosa vuol dire non lavorare per mesi e mesi, costruire con difficoltà qualcosa di proprio, sentirsi incredibilmente soli e senza risposte, scontrarsi con la burocrazia o con l'impossibilità di realizzarsi. Nessuno racconta cosa vuol dire decidere di partire, mettere in gioco e mettere continuamente in discussione se stessi, cercare di sfuggire a un certo senso di colpa, non riuscire a immaginare nulla di sé, rinunciare continuamente, fregarsene e prendere una strada qualunque purché succeda qualcosa, sentirsi soddisfatti come non mai perché si è riusciti, nonostante tutto, a costruire qualcosa che ci rende felici.



Molte delle donne e degli uomini che hai fotografato sono ritratti nelle loro camere da letto. Cosa può raccontare uno spazio di chi lo occupa?



Moltissimo. Ho scelto questo spazio, la camera da letto, perché è di per sé molto eloquente: è un legame con quello che siamo stati, è la fotografia di quello che siamo, che decidiamo di portare con noi. È la difficoltà di non riuscire a distaccarci da un'adolescenza che diventa sempre più lunga e crearci uno spazio che sia davvero nostro. La camera da letto diventa la gabbia d'oro in cui tendiamo a rifugiarci, che ci culla perché intrisa di ricordi ed emozioni, ma che spesso finisce per isolarci e imprigionarci in uno stato immobilizzato e da cui non riusciamo a trarre l'energia necessaria per pensare a un cambiamento. La stanza è il simbolo di una precarietà che da lavorativa diventa esistenziale.



Sul sito del progetto, si coglie la forma multimediale che caratterizza il tuo lavoro. Accanto alle foto, hai inserito l’audio delle interviste da te realizzate. Come nasce l’idea di adottare uno storytelling collocato su due registri narrativi, le foto e l’audio?



L'idea è nata dal bisogno di restituire il più possibile quello che l'incontro con le persone con cui ho parlato mi avrebbe dato. I silenzi, le pause, le risate e le esitazioni possono dire tanto, avvicinarci meglio e aiutarci a immaginare con emozione le storie raccontate. Quando si parla della vita delle persone credo sia necessario farlo nel modo più completo, empatico e stimolante possibile. Farlo attraverso le immagini e le parole, scritte e pronunciate, credo sia stata la strada giusta da prendere. Si è parlato di lavoro e inevitabilmente di vita, futuro, felicità. Parole da ripetere e non dimenticare.



“(Dis)occupazione giovanile” è portato avanti attraverso il crowdfunding. Perché questa scelta?



La scelta del crowdfunding è stata dettata dal fatto che è molto difficile trovare qualcuno che finanzi reportage in Italia. I giornali non pagano più e non volevo che un qualsiasi altro ente potesse etichettare il progetto, ma neanche rinunciare. Così ho pensato a una forma collettiva, dal basso, che rientrava molto anche nello spirito del progetto: costruire qualcosa insieme, anche a livello molto pratico, qualcosa fatta da noi per noi. Grazie a Vizibol, la piattaforma dove ho condotto la raccolta fondi, sono riuscita a finanziarmi in modo autonomo il viaggio con una soddisfazione in più. In questo modo "(Dis)occupazione giovanile" è diventato un progetto collettivo, in tutti i sensi, e ringrazierò sempre chi lo ha finanziato, perchè senza non sarebbe stato possibile niente di quello che questa raccolta di storie è diventata.

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