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Disoccupate, ma non troppo

Disoccupate, ma non troppo

Ungheria - Una transizione “clemente” verso le donne, a differenza degli altri Paesi dell'ex URSS

Cristina Carpinelli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Agosto 2006

In alcuni paesi in transizione (Russia, Ucraina, Moldavia, Bulgaria, ecc.), la performance economica è stata particolarmente disastrosa in confronto ad altri anch’essi in via di trasformazione. Nei primi, l’attenzione per la macroeconomia e per la stabilizzazione economica ha fatto dimenticare questioni importanti come la necessità della costruzione di una rete di sicurezza sociale per attenuare gli effetti negativi della transizione (disoccupazione, povertà ecc.). Dal 1992 questi hanno proceduto alla chiusura o alla privatizzazione delle imprese statali e dei servizi pubblici secondo gli indirizzi del Fondo Monetario Internazionale e alla riduzione drastica della spesa sociale. E’ innegabile che il tenore di vita della maggior parte dei cittadini abbia subito un notevole deterioramento evidenziato da numerosi indicatori.
Ciò che è successo in questi paesi dimostra chiaramente che i problemi sociali, come in un qualsiasi altro paese del mondo, devono avere il loro spazio all’interno delle logiche economiche, e che tali problemi non possono essere affrontati separatamente dalle riforme di struttura, invalidando così la strategia del FMI che vorrebbe, invece, isolare le misure di stabilizzazione macroeconomica dalle loro conseguenze sociali. Alcuni responsabili del Fondo hanno stimato che un costo sociale era inevitabile. Tuttavia altre esperienze di cambiamento di un sistema sono state accompagnate da processi di riforma dello Stato e dalla realizzazione delle basi istituzionali indispensabili per il funzionamento di un’economia di mercato, ma soprattutto da politiche di welfare per consentire una transizione meno dolorosa al neoliberismo (paesi Europa centro-orientale).
Il confronto tra diverse economie transizionali del vecchio blocco sovietico o ad esso satelliti, che hanno adottato strategie differenti sui modi, tempi e sequenze della transizione, convalida, infatti, che vi è una grave incidenza delle politiche macroeconomiche (riduzione dell’inflazione, liberalizzazione dei prezzi, privatizzazione ecc.) sul tessuto di un paese, se queste non sono accompagnate dalle opportune tutele sociali. Alcuni Stati (Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica ceca ecc.), dove sono state attuate, nel passaggio da un’economia di piano ad una di mercato, politiche di sostegno delle fasce di popolazione a rischio, e dove le riforme economiche sono state introdotte in maniera graduale, hanno registrato migliori tassi di crescita economica e livelli di povertà e d’ineguaglianza sociale meno preoccupanti rispetto a quelli di altri che hanno applicato in maniera fideistica i consigli del Fondo, trascurando il fatto, fondamentale, che non venisse meno una certa coerenza economica e sociale al loro interno.
L’Ungheria è lo Stato che ha ottenuto i migliori risultati. Perseguendo una politica prudente di privatizzazione e ristrutturazione dei settori produttivi e di creazione delle necessarie infrastrutture, implementando un piano di sviluppo economico sia attraverso l’afflusso d’investimenti stranieri diretti sia riconoscendo incentivi alle imprese occidentali, in grado di portare nel paese capitale e capacità tecniche, ha segnato una costante crescita e un grande aumento della produttività del lavoro. Accanto alla realizzazione degli obiettivi economici, il governo ha provveduto a ridurre gli stanziamenti per la difesa e ad avviare alcune riforme (fiscale, pensionistica, di welfare ecc.) per risanare il deficit pubblico senza, tuttavia, comprimere troppo le sue spese per la sicurezza sociale. Queste scelte “lungimiranti” hanno permesso al paese di superare la crisi economica asiatica e di ridurre negli anni il suo tasso inflativo.
Dal 2002 l’Ungheria ha, tuttavia, subito un rallentamento dell’economia, con una disoccupazione in crescita proprio nel momento in cui, sotto la spinta delle Istituzioni finanziarie internazionali, si avviava a ridurre gli ammortizzatori sociali e a non aumentare gli stipendi pubblici, con lo scopo di diminuire il deficit e rendere il paese più stabile sul piano finanziario. Ciononostante, gli attuali indici economici dimostrano una certa tenuta sulla crescita complessiva del paese.
Un dato rilevante è il trend positivo e ininterrotto dell’indice di occupazione delle donne, anche se la quota di popolazione femminile che partecipa attivamente allo sforzo produttivo del paese è decisamente più bassa rispetto alla media europea. Questo è da attribuirsi al tasso di inattività delle donne non più giovani ma ancora in età di lavoro (50-54 anni), che per motivi di ristrutturazione del settore industriale hanno avuto problemi di ricollocamento, e che quindi sono uscite dal mercato del lavoro beneficiando delle politiche di benefits del governo (pensionamenti anticipati). Oggi sono tutti concordi nel sostenere che l’abbandono del ruolo attivo nell’economia di questa fetta di popolazione ha contribuito nel tempo alla stagnazione della crescita. La mancanza di risorse per trovare una collocazione nel mercato ha, in realtà, significato per queste donne l’abbassamento del loro livello di vita, scoraggiando di conseguenza gli investimenti in nuovi beni e servizi. Va, inoltre, rilevato che, diversamente dagli anni novanta, dal 2000 l’occupazione femminile tende a rallentare sensibilmente come effetto della riduzione della crescita media annua del Pil (i dati UE mostrano, invece, un trend costante in salita), anche se minore è il divario tra tassi maschili e femminili rispetto a quello dei paesi UE.
La disoccupazione femminile segna un calo costante sino al 2002; poi riprende a crescere, e ciò in contrasto con altri paesi UE dove il tasso diminuisce progressivamente. La causa che ha indebolito e flesso negativamente il trend è da accreditare ad un mercato del lavoro ancora debole e incerto, anche per la crisi di crescita che ha colpito il paese negli ultimi anni e che ha incrementato considerevolmente il numero dei giovani (15-24 anni) in cerca di prima occupazione. Costoro, per la scarsa esperienza professionale, hanno difficoltà ad inserirsi nel mercato interno del lavoro e si orientano sempre più verso altri mercati soprattutto dopo che l’Ungheria è entrata a far parte dell’UE.
Malgrado ciò, la disoccupazione femminile è decisamente inferiore alla media europea, dimostrando che un’economia che punti fortemente al terziario (66% del Pil), di cui le donne sono le maggiori fruitici ma anche le maggiori operatrici, pone limiti al rischio per quest’ultime di cadere nella trappola della povertà. Non solo, diversamente dai paesi UE, la disoccupazione femminile è più bassa di quella maschile (con una lieve inversione della tendenza dal 2005, a riprova che non appena un paese entra in una fase di recessione le prime ad essere espulse dal mercato del lavoro sono proprio le donne).
Oggi l’Ungheria si caratterizza per una forte mobilità dai settori in crisi (alcuni rami dell’industria e agricoltura) a quelli in ascesa (servizi pubblici e privati, comprese banche e assicurazioni) dove è alta la percentuale femminile sulla forza lavoro totale. Lo spostamento dell’asse produttivo dai settori tradizionali a quelli utili al nuovo meccanismo economico ha contribuito a ridurre la forbice tra tassi di occupazione/disoccupazione maschili e femminili. Dal punto di vista della dislocazione delle donne per settori produttivi, questo paese presenta un equilibrio prossimo a quello dei paesi più industrializzati. Naturalmente, “non è oro tutto ciò che luccica”. L’Ungheria mostra, di fatto, delle allarmanti disparità non appena si approfondisce lo studio sulla “natura” delle riforme intraprese.

(25 agosto 2006)

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