Di certo questo non è un buon momento per l’Islam, associato ora al fanatismo e alla sistematica violazione di diritti umani delle donne (e non solo) da parte dei miliziani dell’Isis, ora alle condanne in Iran come quella che è costata la morte a Reyahneh Jabbari. Per quanto riguarda l’ISIS le autorità islamiche sono state chiare e unite nell’esprimere indignazione e condanna nei confronti di questa forza dell’autoproclamato Stato Islamico. Una condanna che acquisisce un valore ancora più forte se viene dalle donne musulmane, impegnate nella lotta per i diritti femminili. Come la femminista e scrittrice egiziana Nawal al Saadawi che, pur essenso atea, in una recente intervista rilasciata all’Huffington Post ha dichiarato: “Definirsi inorriditi e indignati di fronte a questo scempio di vite umane non basta, non deve bastare. Occorre trasformare questa rabbia in ribellione, volgendola contro questi aguzzini vestiti di nero, espressione estrema, la più brutale, di una cultura patriarcale, maschilista, fondamentalista dentro la quale sono stati allevati. E questa rivolta non può che partire dalle donne, le prime vittime di una violenza che non ha fine. Spesso praticata in nome della religione. Questi aguzzini dicono di agire per conto dell’Islam ma loro sono i primi nemici dell’Islam”.
Questo convince ancora di più che la risposta alla domanda di apertura è “assolutamente sì”. Con buona pace dei tanti detrattori, che attribuiscono alla religione le ragioni di una condizione diffusa di inferiorità della donna nei paesi in cui è praticata, è ormai evidente in molti paesi a maggioranza musulmana che religione e femminismo non si escludono a vicenda. La relazione tra questi due elementi si presenta fruttuosa sia sul versante delle pratiche femministe che nel modo di concepire la religione. Dunque, convinte del fatto che femminismo e religione non si escludono, molte donne nelle società arabo-musulmane, si sono mobilitate per la difesa dei loro diritti umani e continuano a farlo. Si pensi alle migliaia di donne scese in piazza durante le Primavere arabe e che continuano ancora oggi a chiedere di vedere riconosciuto il loro ruolo fondamentale all’interno dello spazio pubblico e privato, a volte mettendosi anche in situazioni di vero pericolo, come è accaduto più volte qui a Il Cairo. Parlando con molte donne in città, si scopre che il problema sollevato da studentesse, lavoratrici e casalinghe, velate e non velate, appartenenti ad ogni strato sociale è lo stesso: non la religione è di per sé, ma la lettura erronea che spesso viene fatta dei testi religiosi musulmani, facilmente mal interpretabili. “L’Islam non è lo spauracchio da combattere in alcun modo” ripetono convinte. “Siamo donne, musulmane e femministe. Alcune di noi portano il velo. Quale è il problema? L’Islam riconosce l’uguaglianza di diritti tra uomini e donne. Perché non viene capita questa cosa?” Dunque il femminismo esiste anche qui. Certamente si tratta di un movimento molto variegato al suo interno, (come è poi lo stesso mondo arabo-musulmano che unisce culture e tradizioni diverse sotto la stessa religione) teso a rivendicare libertà e diritti per le donne, proprio come in Occidente.
I contributi negli anni sono stati e sono numerosi. Accanto alle pioniere del femminismo arabo in primis all’egiziane Hoda Sharawi (capostipite di quello che viene chiamato paradigma nazionalista secolare) e Zeinab Al-Ghazali (capostipite della linea islamica), si sviluppa il cosiddetto femminismo islamico, che nato sotto una nuova veste a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso vuole rivendicare l’uguaglianza tra uomini e donne sia in ambito pubblico e che in quello privato attraverso una rilettura in ottica di genere del Corano, proponendo di fatto una riforma legislativa all’interno della società per ribaltare la concezione patriarcale della società. La religione islamica quindi, punto nodale, interpretata attraverso una chiave femminile, va ad assumere un ruolo fondamentale per l’affermazione della parità tra i sessi. E se per molti questo è considerato un ossimoro, non la pensano allo stesso modo Amina Wadud, Rifaat Hassan, Shaheen Sardar Ali, Fatima Naseef e Fatima Mernissi. Queste pensatrici – di origine pachistana, saudita, marocchina o afro americana, proprio per ribadire la diversificazione della provenienza - credono nella possibilità di coniugare religione islamica e rivendicazioni femminili, abbandonando un’interpretazione unilaterale e maschilista del testo coranico. Lo fanno, avvalendosi dell’ijtihad, cioè la ricerca indipendente sulle fonti religiose quando un passo del Corano lascia aperto il campo a più interpretazioni del suo significato, un’operazione vietata più di 400 anni fa.
Quello che vogliono fare le teoriche del femminismo islamico non è mettere in discussione la sacralità del Corano, ma la temporalità e la contestualizzazione della sue interpretazioni da cui deriva, in alcuni casi, la sottomissione della donna. Partendo da una varietà di posizioni - ancora una volta è bene ricordare che il mondo musulmano non è un blocco monolitico, ma abbraccia al suo interno identità diverse a seconda della posizione geografica ad esempio - lo scopo comune di queste attiviste è l’affermazione dei diritti femminili in chiave islamica, dove la centralità della religione non va intesa come un ritorno al passato, ma come una forma di rivendicazione e re-invenzione del sé femminile qui ed ora, senza rinnegare la propria religione. Oggi, quello che più importa è capire cosa e dove questo tipo di femminismo può portare. Alla luce di ciò può assumere una notevole rilevanza la notizia, ancora non confermata, che Ahmed Tayeb, imam della moschea di Al Azhar, la più importante istituzione religiosa dell’Islam sunnita abbia emesso una fatwa cioè un parere giuridico sul fatto che esista la tanto acclamata parità di genere tra uomini e donne nella religione islamica. Se la notizia venisse ufficializzata, si tratterebbe in sostanza di un importante passo in avanti, quanto mai necessario ora, che scardinerebbe un’interpretazione maschilista della religione e di conseguenza dell’essenza femminile. Alla fine si tratterebbe di allacciarsi di nuovo alla lunga storia dell’Islam che ai suoi albori ha visto due donne, Khadija e Aisha, due delle mogli del Profeta Maometto, ricoprire un ruolo fondamentale nella diffusione della nascente religione all’interno della prima comunità islamica.
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