Mercoledi, 28/04/2010 - “Differenti ma non diseguali” la giornata di studio, di sabato 24 aprile 2010, su “lavoro,welfare,uguaglianza” organizzata dal Dipartimento di Scienze economiche dell’Università di Bergamo e da IFE Italia (Iniziativa femminista europea) è stata interessante e partecipata.
Per IFE la scelta di interrogarsi e confrontarsi su questi temi non è casuale dato che IFE vuole rappresentare un femminismo che continua ad analizzare i due sistemi di potere che governano il mondo (quello patriarcale e quello capitalista) considerandone tutte le connessioni e le contraddizioni (genere/classe/ fenomenimigratori/orientamento sessuale, eguaglianza/differenza, emancipazione/liberazione).
Per questo ci è apparso necessario indagare meglio e di più le questioni relative al lavoro e al sistema di welfare pubblico e le conseguenti ricadute sull’assetto democratico.
Per le donne il lavoro , nella condizioni in cui è stato offerto nella globalizzazione neoliberista e nelle caratteristiche dell’odierna crisi economica, non sa più essere la soluzione di un problema (la ricerca di un’autonomia personale ed economica) ma diventa esso stesso un problema ( precarietà,instabilità, insicurezza). Con un aggravante in più: il permanere delle diseguaglianze “tradizionali” (salari, professioni, carriere) fra donne e uomini fa sì che “non è vero che le donne sono seconde in tutto, nel lavoro sono più precarie dei maschi”.
La precarietà del lavoro agisce anche su un piano simbolico. Nel secolo scorso il lavoro salariato, pur se segnato dall’alienazione imposta dal capitale, ha avuto un forte valore sociale consentendo la costruzione di soggettività critiche, individuali e collettive. L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro ( dalla rivoluzione industriale in poi) ha incrinato, poi, il potere patriarcale perché ha consentito la messa in discussione del rapporto fra i sessi e la divisione sessuata del lavoro (la “produzione” agli uomini e la “riproduzione” alle donne). Il lavoro esterno alla casa e alla famiglia ha determinato, per le donne, un processo di emancipazione che ne ha favorito l’autonomia personale ed economica ed ha svelato le gerarchie di potere che agiscono nella relazione donna/uomo , all’interno della famiglia , del corpo sociale e nei rapporti di produzione.
Il processo di precarizzazione del lavoro ha facilitato la decostruzione dei sistemi pubblici di welfare che seppur segnati , in particolare in Italia, da una forte impronta familistica avevano comunque alluso ad una possibile socializzazione del lavoro riproduttivo.
L’intreccio fra i processi di precarizzazione del lavoro e della vita hanno svuotato il principio costituzionale di uguaglianza (per le donne scarsamente realizzato nella sostanza) ed hanno avuto ricadute significative sull’assetto democratico: oggi sull’uguaglianza prevale il privilegio che costruisce una società asimmetrica, escludente, ingiusta e violenta dove vincono l’identificazione con i vincenti e i sentimenti di invidia, disagio, insicurezza e paura. Ciò crea terreno fertile alla riproposizione dell’”ordine simbolico” patriarcale e un conseguente declino di laicità che rinvigoriscono i “tradizionali” stereotipi femminili. Senza uguaglianza quindi l’unica differenza riconosciuta alle donne è quella imposta dallo stereotipo patriarcale.
La giornata di studio ha consentito a queste tracce di pensiero di arricchirsi di spessore analitico.
Tutte le relatrici presenti (Mariagrazia Campari, Lidia Cirillo , Lidia Menapace, Giovanna Vertova, Alessandra Vincenti) hanno messo in luce il processo di femminilizzazione del lavoro (inteso sia come aumento quantitativo di manodopera femminile che come generalizzazione della precarietà delle modalità di accesso e di permanenza al lavoro per decenni prerogativa delle donne) ed analizzato l’intreccio genere-classe nell’odierna crisi economica.
Ne è emersa una realtà complessa e a volte contradditoria che induce ad evitare due tendenze speculari ed ugualmente perniciose : il miope trionfalismo di chi considera acriticamente positivo l’aumento della manodopera femminile e il cupo pessimismo di chi , in questo aumento, non vede altro che oppressione e sfruttamento.
Una delle condizioni per evitare queste due tendenze è quella di non rimuovere il conflitto svelando i rapporti di potere che si celano sia nella dimensione del genere che in quella della classe.
Del resto tali rapporti di potere sono ben visibili , in particolare nella decostruzione del sistema pubblico di protezione sociale che si trasforma da “welfare della parità” in “welfare materno”, perché sostenuto dalla ricostruzione di un “ordine sociale di genere” che riattribuisce ai due sessi ruoli specifici e stereotipati. Un processo di regressione e un contrattacco conservatore che si strutturano su un familismo mai superato e sulla enfatizzazione della “comunità” (assunta come realtà “omogenea” perché si finge di non vedere i rapporti di potere che la governano e le differenze che la attraversano) per eliminare del tutto la natura e la funzione delle istituzioni pubbliche.
Anche questo processo di decostruzione del “pubblico” contribuisce ad erodere, se non a tradire, la Costituzione repubblicana i cui principi vengono continuamente calpestati a tutto danno dell’assetto democratico del nostro Paese. Del resto basta osservare la solitudine delle lavoratrici e dei lavoratori che scelgono forme di lotta disperate per capire uno dei “perché” strutturali dell’erosione e del tradimento : se nei luoghi di lavoro scompare il conflitto (e quindi lo svelamento dei rapporti di potere e i loro intrecci, a partire dalla divisione sessuata del lavoro) e viene a mancare una valida resistenza collettiva organizzata la rappresentanza si svuota e la democrazia declina nella società intera.
Analisi interessanti la cui complessità ci costringe a continuare il nostro lavoro di ricerca e di iniziativa (stiamo pensando ad una seconda occasione di confronto).
Sostenuti da una domanda suggestiva che ci invita ad un pensiero che fa disordine : non è che ci sia bisogno di uscire dal capitalismo per poter uscire dalla sua crisi?
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