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Dieci anni dopo la Conferenza di Pechino

Dieci anni dopo la Conferenza di Pechino

Politica/ Relazione "Shadow Report" - Documento alternativo a quello del Governo italiano sull'attuazione della Piattaforma di Pechino in Italia

Casa Internazionale delle donne Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di 0000

Il presente documento, definito Shadow Report, in quanto alternativo a quello del governo italiano sulla attuazione della Piattaforma di Pechino in Italia, è stato elaborato in seguito a una decisione in tal senso assunta dall’Assemblea del 2 ottobre 2004, che si è svolta alla Casa Internazionale delle Donne, ed è stata promossa da: Arcidonna, Candelaria, Casa Internazionale delle donne, Caucus delle donne-Comitato romano, Cooperativa Generi e Generazioni, Coordinamento italiano della Lobby europea delle donne, Paese delle donne, Associazione Zora Neale Huston, “con l’obiettivo di dar vita a un Rapporto ‘OMBRA’ sulla situazione italiana e su quella mondiale, vista con gli occhi delle donne italiane”.



Il presente documento corredato da autorevoli e rappresentative firme, è stato inviato alla Commission on the Status of Women (CSW) in relazione alle iniziative Onu (New York, Marzo 2005) sull’applicazione della Piattaforma di Pechino a 10 anni dalla Conferenza, alla Commissione incaricata del monitoraggio e dell’assemblea preparatoria per le regioni dell’Europa e del Nord America (Ginevra 14/15 dicembre) e alla conferenza immediatamente precedente delle ONG (Ginevra, 12/13 dicembre).



Questo “Shadow Report” si compone di una premessa di carattere internazionale, di una prima parte di analisi critica su alcune scelte politiche del governo italiano e di una seconda parte che affronta i temi scelti come principali dalla Conferenza delle NGO di Ginevra: Women in the Economy, Institutional Mechanisms to Promote Gender Equality, Trafficking of Women in the Context of Migratory Movements.







SHADOW REPORT

SULLA SITUAZIONE ITALIANA

A 10 ANNI DALLA CONFERENZA ONU SULLE DONNE (PECHINO, 1995)





1.Premessa

"La difficile situazione nazionale e internazionale non è riuscita a farci dimenticare le idee delle donne su una nuova possibile convivenza globale, emerse nel Forum e nella IV Conferenza ONU sulle donne di Pechino nel 1995. Infatti, nonostante gli anni duemila abbiano distrutto molta parte delle speranze emerse nel corso degli anni novanta, quelle idee risultano tuttora valide e degne di essere realizzate e migliorate, soprattutto se vogliamo porre una fine al regime di odio e paura che sembra essersi impossessato del nostro pianeta. Non si può infatti trascurare il fatto che gli eventi accaduti negli ultimi tre anni, dalla caduta delle Twin Towers alle guerra dell'Afghanistan e dell'Iraq, alle ripetute stragi terroristiche degli ultimi mesi, hanno mutato radicalmente lo scenario mondiale, trasformando in ‘guerra di civiltà, quella che negli anni novanta chiamavamo globalizzazione. Infatti, il mutamento delle forme della politica internazionale ha costretto molte di noi, in poco tempo, ad avere una nuova consapevolezza dei diversi livelli in cui ‘si fa politica’ anche in un paese come l'Italia". Situazione non facile poiché la consapevolezza politica, di cui parlava il testo d'invito, è un dato contraddittorio. Infatti oggi, a differenza degli anni 90, il movimento femminista transnazionale si presenta in maniera segmentata e non riesce a far percepire i collegamenti e gli incroci tra la soggettività femminile e il governo del mondo. I Social Forum Mondiali spesso usufruiscono degli interventi delle donne - da Arundati Roy a Vandana Shiva a Shirin Ebadi – ma le più famose appaiono avulse dal contesto politico delle donne. Non è quindi incomprensibile come anche all’interno delle Nazioni unite, che dal canto loro stanno subendo una necessaria trasformazione, le donne stiano attraversando un periodo molto complesso, che penalizza il percorso del "Pechino + 10", cioè la verifica internazionale dell'applicazione della Piattaforma di Pechino nelle diverse regioni del mondo. In questo contesto di assenza di un movimento femminista transnazionale, e di difficoltà delle strategie promosse dalle donne, che erano state sviluppate all’interno delle istituzioni globali nel decennio precedente, occorre far sentire la voce autonoma delle donne ai vari livelli in cui si determinano le regole della convivenza nel nostro pianeta . A partire dai negoziati per il governo del territorio, fino alla discussione sui modelli di Welfare necessari alla nostra contemporaneità, che toccano temi quali le migrazioni, le nuove reti di solidarietà globale e le nuove forme di cooperazione tra Nord e Sud del mondo. Anche se la guerra è tornata ad assumere una legittimazione come strumento di governo del mondo e ci fa vedere le donne come copie senza anima di una umanità priva di senso: al tempo stesso aguzzine e vittime di violenza, soldatesse e crocerossine dedite ai bambini e all'assistenza . Anche se in Italia membri del Governo in carica insistono nel considerare le donne un oggetto di tutela, relegandole all’interno della famiglia patriarcale. Noi donne italiane, noi femministe abbiamo voluto essere presenti nel contesto internazionale non solo per denunciare le menzogne di un governo del mondo iniquo. Siamo consapevoli che il passaggio di civiltà che il pianeta ha dinanzi non potrà fare a meno del dialogo tra le infinite differenze che donne e uomini di luoghi e generazioni diverse incarnano, ma soprattutto non potrà fare a meno del pensiero critico della nostra differenza sessuale.





PARTE PRIMA : GLI IMPEGNI DISATTESI





I. LE ISTITUZIONI NON ASCOLTANO LE DONNE E PROMUOVONO CONTRORIFORME INIQUE



Tutte le più recenti analisi statistiche (Cfr.Istat-2004 “Come cambia la vita delle donne”) confermano la crescita della soggettività delle donne italiane, che sempre più si affermano in tutti i campi della vita sociale e culturale, anche se, dal punto di vista delle condizioni materiali di vita, si registrano forti peggioramenti, le cui cause vanno ricercate nelle culture e nelle politiche dell'attuale governo. Il Documento del governo sulla applicazione della Piattaforma di Pechino in Italia, invece, evita ogni riferimento alla realtà delle donne nel nostro paese e si limita a un elenco di leggi e provvedimenti che riguardano sostanzialmente l'attività del precedente governo di centro-sinistra - che però non viene neppure nominato. Tra questi, la Direttiva Prodi Finocchiaro del 1997, la legge 125/1991 e il D.L.196/2000 sulle consigliere di parità, la legge sulla conciliazione tra lavoro e famiglia n° 53/2000 e il Testo unico sulla maternità e sulla paternità. Probabilmente vi è un grande imbarazzo da parte delle istituzioni nazionali, poiché vi è una sorta di rimosso rispetto al ruolo politico delle donne. In riferimento al mainstreaming delle tematiche di genere nelle istituzioni, infatti, il rapporto, della cui stesura la Ministra per le pari opportunità è la prima responsabile, non dice nulla. Non parla delle politiche considerate positive da questa maggioranza, né tantomeno si citano quelle a nostro avviso molto negative, portate avanti da altri ministri di questo stesso governo, come se la cosa non riguardasse la Ministra per le pari opportunità.

Non esiste neppure un riferimento alla legge Bossi-Fini: mentre si sostiene l’impegno a svolgere politiche antidiscriminatorie, non si dice che questa legge colpisce gravemente i diritti delle donne immigrate ed i suoi effetti danneggiano irreparabilmente l’attività di quante/i lavorano da anni contro la tratta della prostituzione.

Non si fa riferimento al Libro bianco sul welfare, che contiene alcune affermazioni pericolose per la libera scelta delle donne, come quella sul "baratro demografico" italiano da cui deriverebbe la necessità di incentivare la natalità attraverso una politica demografica fatta sopra le teste e i corpi delle donne. Non viene citata la legge sulla fecondazione assistita, in cui per la prima volta , dopo l’approvazione della legge sull’aborto nel 1977, si torna a parlare dell’embrione come di un individuo dotato dei diritti di cittadinanza a scapito del corpo delle donne. Quella legge infatti segna il culmine di una mancanza di considerazione del protagonismo delle donne sui temi della convivenza civile e della maternità. Essa è costantemente oggetto di importanti critiche, espresse in primo luogo dai movimenti delle donne, ma anche da vari ambienti, laici e religiosi. Il fatto che la legge determini discriminazioni tra le donne e soffochi la libertà di ricerca è inaccettabile poiché fa dell’Italia un paese di retroguardia nel contesto europeo.

In modo analogo vanno le cosiddette riforme di questo Governo realizzate nel campo della Pubblica Istruzione e del Lavoro. Per quanto riguarda la Pubblica Istruzione le riforme del Ministro Letizia Moratti in materia sia di scuola che di università, sono destinate a penalizzare le giovani generazioni, ragazzi e ragazze . Infatti a causa dell’anticipo dell'età di scelta dell'indirizzo di studi o di formazione professionale, non sono liberi di scegliere in base ai propri desideri e risentono in misura maggiore dell’influenza della famiglia. Per quanto riguarda il prolungamento della precarietà per l'accesso all'insegnamento universitario, la popolazione femminile soprattutto ne è molto colpita, poiché questo settore è tradizionalmente importante per l’impiego femminile. Per ultimo i tagli alla scuola a tempo pieno hanno comportato enormi problemi, in particolare alle donne che lavorano.

Per quel che riguarda il lavoro, non c'è collegamento tra le politiche dell'occupazione femminile e la nuova legge 30 /2003 (cd. Legge Biagi). Infatti le conseguenze del lavoro precario, la giungla contrattuale rendono sempre più difficile il lavoro anche per le donne, sempre ricattabili a causa della maternità. "La famiglia esiste per permettere alle donne d'avere dei figli e d'avere un uomo che le difenda". Questa affermazione fatta dal Ministro Rocco Buttiglione al Parlamento Europeo il 5 ottobre 2004 , ben riassume la cultura di questo governo e lo scarto che esiste con il Paese reale.





II. GENDER NO STREAMING

Nelle politiche del governo italiano l'approccio di gender mainstreaming è pressoché assente. Nonostante sia stato puntualmente fatto presente da parte delle donne dei sindacati come l'insieme dei provvedimenti sopraelencati abbiano effetti negativi sulle lavoratrici, il Ministro non ha esercitato alcun ruolo di mainstreaming, ma anche le istanze parlamentari hanno trascurato di essere presenti in questo campo. Sebbene il regolamento dei Fondi strutturali dell'U.E. richieda che si integrino l'ottica di genere e le pari opportunità tra uomini e donne trasversalmente in tutta la programmazione 2000-2006, l'implementazione italiana è a dir poco carente. Dagli esiti dell'applicazione della politica di pari opportunità e del mainstreaming di genere negli interventi FSE 2000-03 (analisi dei risultati della valutazione di mid term) si evince che le pari opportunità tra uomini e donne sono state trattate sostanzialmente solo nei progetti finanziati nell'asse specifico E (il 10% di cui il Review governativo si vanta) , mentre, tra i beneficiari dei progetti finanziati negli altri assi, le donne risultano svantaggiate sia a livello quantitativo che a livello qualitativo: sono in numero inferiore agli uomini; le donne sono state destinatarie soprattutto di azioni di formazione di base e pochissimo di Alta Formazione; le azioni di formazione di base spesso non sono state unite a misure di accompagnamento adeguate, o non sono state esse stesse adeguate alla domanda di lavoro per cui si registra un alto tasso di abbandoni da parte delle beneficiarie.



Questa disattenzione alla tematica del Gender Mainstreaming ha causato danni più evidenti nelle relazioni internazionali . In quel contesto infatti gli anni immediatamente successivi a Pechino avevano fatto registrare notevoli miglioramenti. Tali miglioramenti erano visibili sia nel contesto istituzionale, in particolare nell’allargamento della presenza in sede Nazioni unite su tematiche specifiche come quelle della tratta, e nella cooperazione allo sviluppo che era stata molto attiva per quanto riguarda la condizione delle donne in situazioni di conflitto. Attualmente l’incapacità da parte del Ministero delle Pari Opportunità di dialogare con le istituzioni della politica estera e con la società civile sulle tematiche che riguardano il contesto della globalizzazione rende più difficile mantenere vive le buone esperienze avviate, soprattutto nel campo della cooperazione allo sviluppo. I programmi istituzionali di cooperazione allo sviluppo dedicati alle donne, sono infatti diminuiti a favore delle azioni a sostegno dei minori e c’è una tendenza da parte della Direzione per la Cooperazione allo Sviluppo a confondere le giovani donne nella categoria neutra di minori. Questa tendenza sottrae di fatto peso specifico alle analisi e alle strategie definite nell’ambito della Piattaforma di Pechino e costituisce un forte impedimento per l’Italia a continuare con coerenza l’azione avviata in sede multilaterale. L’unica prospettiva positiva deriva dalle amministrazioni locali e regionali, che in alcuni casi sono molto interessate alla valorizzazione delle esperienze delle donne sul loro territorio, e intervengono a sostegno delle donne vittime di violenza e soprattutto nelle aree del Bacino Mediterraneo, dove lo scambio di esperienze è reso più facile dalla vicinanza territoriale. Non esistono tuttavia linee guida a favore delle donne nel settore della Cooperazione Decentrata.





III. LA SOPPRESSIONE DELLA "COMMISSIONE NAZIONALE PER LA PARITÀ E LE PARI OPPORTUNITÀ"



La Commissione Nazionale per le pari opportunità tra uomo e donna presso la Presidenza del Consiglio, istituita nel 1984 e definita per legge nel 1990, è stata abrogata nell'agosto 2003 da un decreto legislativo, pubblicato in gazzetta ufficiale il 22 agosto 2003. Al suo posto vi è ora una Commissione presso il Dipartimento Pari Opportunità, presieduta dalla Ministra stessa, composta da 25 componenti, da cui sono state cancellate le rappresentanti femminili dei partiti politici. Il passaggio da un organismo autonomo a un organismo subordinato all'esecutivo azzera gli stessi elementi fondanti della Commissione: la trasversalità, il pluralismo, l'essere sensore delle istanze delle donne nella nostra società, il ruolo di iniziativa e di impulso alle politiche di pari opportunità e soprattutto l'autonomia. La Commissione - nella sua storia ventennale - è stata un luogo di democrazia, di partecipazione, di coordinamento delle commissioni regionali, di dialogo con le aggregazioni di donne presenti nella società, di promozione di politiche, autonoma e propositiva rispetto al governo, al Ministero delle pari opportunità, al Parlamento. Questi principi hanno rappresentato in questi anni i punti di forza delle politiche di pari opportunità e di questi principi la Commissione Nazionale si è fatta garante. La Commissione Nazionale assolveva la funzione essenziale di raccogliere e mettere in rete le istanze delle forze femminili attive nella società, con quel ruolo di iniziativa e di proposta autonoma che la Commissione ha sempre rivendicato nella sua storia ventennale. E quella, altrettanto essenziale, della diffusione della cultura delle pari opportunità, non in modo rituale e formale, ma in modo vivo e dialettico, perché nel nostro Paese non c'è ancora un'accettazione sociale condivisa dell'importanza strategica delle politiche di pari opportunità. Dunque la sua abrogazione e l'istituzione di una commissione appiattita sull'esecutivo toglie forza non solo alle istituzioni, ma anche e soprattutto alle donne che lavorano per la cultura delle pari opportunità in molteplici forme, istituzionali e non, con scarso coordinamento, ma in modo vivo e propositivo.



La preparazione della Conferenza ONU di Pechino segnò l'avvicinamento delle donne immigrate alle donne italiane ed alle istituzioni per la promozione delle pari opportunità. Nel 1997 per la prima volta una donna immigrata era entrata a far parte della C.N.P.O., il che aveva favorito l'inserimento delle donne immigrate anche nelle Commissioni e Consulte regionali per le pari opportunità. Con la riforma della C.N.P.O. le donne immigrate sono state escluse, interrompendo un'esperienza positiva di partecipazione delle donne immigrate nelle istituzioni italiane a livello nazionale. Solo a livello regionale alcune esperienze continuano. In questo momento, a livello nazionale, l'Ufficio Antidiscriminazione, istituito dal decreto Legislativo 9 luglio 2003, n.215, in attuazione della direttiva 2000/43/Ce per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica, potrebbe riaprire un'opportunità di collaborazione tra l'associazionismo immigrato in genere, anche quello delle donne, con un'istituzione italiana.





PARTE SECONDA: I PRINCIPALI TEMI DELLE PROSSIME CONFERENZE EUROPEE DI GINEVRA





1.WOMEN IN ECONOMY

In sintesi

A una crescita dell'occupazione femminile, della presenza femminile nel mercato del lavoro, nell'istruzione - in particolare a livello universitario, anche se non ancora sufficiente nelle facoltà scientifiche-tecnologiche - della partecipazione alle attività culturali; a una crescita contestuale delle contraddizioni - al conseguimento di capacità professionali non corrisponde un adeguato inserimento nel mondo del lavoro; permangono squilibri nelle carriere e nelle retribuzioni, la crescita dell'occupazione femminile è concentrata soprattutto nel Centro-Nord - non corrispondono reali politiche di sostegno da parte del governo, né un adeguato intervento rispetto alle contraddizioni segnalate. Anzi, l’allarme sulla denatalità e le ridicole politiche che ne conseguono (bonus per il secondo figlio), se da una parte confliggono con la nuova libertà e soggettività femminile, dall’altra tendono a risospingerla indietro, ai vecchi ruoli familiari, a sovraccaricarla di tutte le responsabilità del lavoro di cura. Non vi sono politiche infatti volte a corresponsabilizzare donne e uomini: gli asili aziendali riguardano solo le lavoratrici madri e le esigenze delle aziende, non le responsabilità della coppia né la crescita educativa dei bambini. La percentuale dei lavoratori padri che richiedono i congedi parentali per attività di cura supera di poco l’1%, e inoltre riguarda periodi limitati di astensione dal lavoro e purché sia garantita la massima retribuzione possibile.

Non sono state messe in atto politiche tese a determinare quelle condizioni di lavoro, di reddito e di servizi che possono permettere alle giovani di costruire liberamente il proprio percorso di vita; vengono perseguite invece politiche ideologiche che considerano la famiglia tradizionale quale attore sociale primario nella programmazione delle politiche sociali. La famiglia è vista cioè come puro destinatario di agevolazioni fiscali, trasferimenti monetari, facilitazioni all’acquisto della casa in una logica del tutto assistenziale, in cui scompare la soggettività e l’autonomia dei singoli in quanto persone titolari di diritti individuali esigibili.





In dettaglio

La crescita dell'occupazione femminile

Negli ultimi 5 anni si è avuto un aumento di un milione e 622 mila posti di lavoro, di cui due terzi sono andati alle donne, accompagnato da un'importante crescita dell'istruzione femminile - in particolare a livello universitario, anche se non ancora sufficiente nelle facoltà scientifiche-tecnologiche – e della preparazione professionale delle donne, che a tutti i livelli si rivelano le vere protagoniste della più generale qualificazione delle competenze registrata negli ultimi anni. Le donne sono più istruite degli uomini, meglio formate, e tuttavia meno riconosciute sia nelle qualifiche che nelle retribuzioni (con stipendi che arrivano ad essere inferiori fino al 35% rispetto a quelle degli uomini soprattutto nelle qualifiche più alte).

Nonostante i progressi registrati negli ultimi decenni, grazie ai quali le donne sono entrate ormai a pieno titolo nel tessuto produttivo del Paese, sono ancora troppo poche le donne che lavorano. Il tasso di occupazione che si attesta nel 2003 al 42,7 (fonte ISTAT) e il tasso di attività femminile in Italia del 48%, a fronte di una media europea del 60,8, sono ancora lontani dall'obiettivo di piena occupazione della Conferenza europea di Lisbona del 55% a medio termine del 2005 e del 60% del 2010.

Va anche sottolineato che la crescita dell'occupazione femminile è concentrata soprattutto nel Centro-Nord, dove si registra un tasso di occupazione del 51,5 %, mentre al Sud si attesta al 27,1%. Il tasso di disoccupazione è del 6,5% al Centro-Nord e del 25,3% al Sud. Permangono i fenomeni di abbandono del lavoro dopo il primo figlio ( da un'indagine Istat del 2003 su un campione di 50.000 neomamme, il 20% ha abbandonato il lavoro dopo la nascita del bambino) e si moltiplicano le imposizioni da parte dei datori di lavoro alle giovani assunte di rinunciare dichiaratamente alla maternità.

Questi dati sintetici non mostrano però appieno come in Italia, dal Nord al Sud, le donne (soprattutto le giovani) percepiscono il lavoro professionale come elemento fondante per l'autodeterminazione e per la libertà, non quindi "un di più" o "un optional" alternativo alla famiglia o ai figli.

Sinteticamente si può affermare che oggi è in atto per le donne una transizione dal "lavoro necessitato al lavoro come parte della propria identità". Non è un caso che sta scomparendo la figura della "casalinga". Una donna che non lavora per alcun periodi si dichiara generalmente disoccupata e questo avviene sempre più anche nel Mezzogiorno.

Il lavoro diventa dunque per le donne una parte fondamentale della propria identità personale, che è forse più complessa di quella degli uomini - il valore della differenza - e che comprende, oltre al lavoro, un sistema di relazioni affettive quali la famiglia, i figli, ma anche le relazioni culturali, amicali e di impegno sociale.

A questi mutamenti e ai nuovi bisogni espressi dalle donne non corrispondono reali politiche di sostegno da parte del Governo, né la dovuta attenzione da parte del Ministro per le pari opportunità. Il NAP (Piano di azione nazionale) 2003 - 2005 e il Libro bianco sul welfare non hanno dato risposte a questi bisogni, nonostante le critiche e le proposte avanzate dai Sindacati Confederali e dalle donne.



La conciliazione

L'occupazione femminile è fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi di Lisbona, ma il modello di società proposto attualmente assegna alle sole donne il lavoro di cura nella famiglia (che rimane per il Governo quella fondata sul matrimonio, anche se di fatto aumentano le convivenze, le separazioni e i divorzi). Alle donne si offrono forme di lavoro sempre più atipiche da sconfinare nella precarietà e la conciliazione fra tempi di vita e tempi di lavoro diventa sempre più difficile, se non impossibile. Da un'indagine ISTAT risulta che tuttora il 52,4% delle donne occupate e con un figli in età inferiore a 5 anni dichiara di lavorare più di 60 ore settimanali sommando il lavoro familiare e quello professionale, contro 21,7% degli uomini nella stessa condizione. La condivisione dei lavori di cura all'interno della coppia è invece il presupposto culturale indispensabile se si vuole arrivare all'affermazione di una diversa qualità del lavoro e della vita e di una reale parità fra uomini e donne in tutti i campi della vita sociale, dal lavoro alla rappresentanza nei luoghi elettivi delle istituzioni. E' del tutto evidente, infatti, che se la cura, sia degli anziani, sia dei bambini, rimane solo in capo alla donna, la parità nel mondo del lavoro non si otterrà mai.

Il rapporto del governo afferma che la legislazione degli ultimi anni non solo ha di fatto favorito l'incremento dell'occupazione femminile, ma ha anche fornito gli strumenti per conciliare i tempi di vita e i tempi di lavoro. Con la legge 53/2000 sui congedi parentali, con il testo unico sulla maternità, ma anche con altri importanti atti legislativi dei governi precedenti, si era cominciato ad affermare una cultura che portava alla redistribuzione dei ruoli fra uomini e donne nel lavoro e nella famiglia e a rendere la parola "conciliazione" non più declinata esclusivamente al femminile, ma anche al maschile.. Dopo l'entrata in vigore della legge, vi era stato un generale aumento dell'utilizzo del congedo parentale: l'aumento, paragonando il 1999 con il 2001, si era registrato sia per le donne che per gli uomini. Per questi ultimi l'aumento sembra comunque incidere di più (dallo 0,3% del totale di un vasto campione di dipendenti pubblici maschi all'1,2%), anche se ciò è almeno in parte dovuto al basso punto di partenza di tale dato. Tra uomini e donne restavano sostanziali differenze nelle modalità di fruizione dei congedi, rilevabili in particolare dal numero di giornate fruite e dalla presenza o meno di retribuzione durante l'astensione (in relazione a un campione di più di mezzo milione di dipendenti pubblici, mentre 7 uomini su 10 fruivano al massimo di 30 giorni di congedo, e per lo più retribuiti per intero, 6 donne su 10 utilizzavano più di 30 giorni e l'82,6% del totale delle madri utilizzava giornate retribuite solo al 30% o non retribuite affatto).

Comunque, il disegno che si è cercato di portare avanti nella precedente legislatura per una parità reale fra uomini e donne nel mercato del lavoro e nella società registra oggi una preoccupante battuta di arresto, essendo cambiati, come abbiamo già detto, i presupposti culturali delle politiche dell'attuale governo. Anche il "libro bianco" del Ministro del Welfare lo comprova: esso sembra prestare grande attenzione all'incremento dell'occupazione femminile e al tema delle pari opportunità fra uomini e donne, che cita in abbondanza in tutti i capitoli, ma per rilanciare il tema dei provvedimenti da prendere per facilitare la conciliazione fra lavoro e famiglia, ribadisce l'impegno del Governo a promuovere " politiche sociali di sostegno alle donne sposate che lavorano per dare loro la possibilità di meglio conciliare l'attività lavorativa con gli impegni familiari”. Per quanto riguarda il prelievo fiscale sui redditi di lavoro asserisce di seguito che va prestata particolare attenzione, affinché non disincentivi "il lavoro femminile anche quando aggiuntivo all'interno di un dato nucleo familiare". Anche qui evidentemente con - quell'aggiuntivo - si ripropone il modello sociale per cui il lavoro della donna ha un valore inferiore a quello del marito.



Precarietà

Se è vero che l'aumento dell'occupazione femminile è il fenomeno più rilevante di questi ultimi anni, occorre evidenziare nello scenario generale non solo la quantità, ma anche la qualità della partecipazione femminile italiana al mercato del lavoro e le prospettive, in relazione alla recente legge di riforma del mercato del lavoro e alla grave crisi economica che sta attraversando il nostro Paese.

Quello che il Governo propone non riguarda solo il mercato del lavoro, ma l'introduzione di una cultura dove il lavoro diventa "merce"; si sostanzia in tal modo quell'operazione delineata nel Libro Bianco, che trova conferma non solo nella riduzione delle tutele per trovare e per vivere serenamente il lavoro, ma nella più ampia strategia di attacco alla dimensione dei diritti e della cittadinanza. Vi sono una sistematicità e una coerenza di fondo che legano il decreto attuativo della legge 30/2003 sulla riforma del mercato del lavoro, la legge 30/2002 ( 189/2002) Bossi-Fini sull'immigrazione, la riforma della scuola e dell'università della Ministra Moratti, la proposta di riforma fiscale e la controriforma previdenziale, l'attacco al welfare nazionale e locale. E' l'egoismo sociale, è un'idea di competizione povera e al contempo selvaggia, è il principio del superamento di ogni corpo democratico intermedio a partire dal Sindacato Confederale.

Da un attenta lettura del "Libro Bianco" sul mercato del lavoro, della legge 30/2003 (nominata Legge Biagi) che ne rappresenta la coerente traduzione normativa, del decreto 276 attuativo e relative circolari applicative e del "Libro bianco sul welfare" emerge un modello di sviluppo che non è favorevole alle politiche di pari opportunità e all'avanzamento delle donne nelle carriere.

La relazione di accompagno della legge 30/2003 (legge Biagi) la definisce come "una legge per l'inclusione sociale delle donne". Vi si afferma inoltre che "l'adozione di misure che agevolano l'accesso al lavoro a tempo parziale e ad altri contratti a orario modulato rappresenta una importante strategia di azioni positive finalizzate, attraverso la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, alla lotta contro le discriminazioni indirette nei confronti delle donne". Si ribadisce quindi che part time e orari di lavoro anomali sono soprattutto adatti alle donne occupate con impegni familiari, avvalorando così una realtà in cui queste forme di orario determinano una segregazione femminile, precaria e senza prospettive. Il 17,3% delle donne occupate lavora a part-time (3,2% invece è la percentuale degli uomini). Il 30% dichiara di farlo per scelta, soprattutto per conciliare lavoro e famiglia, il 27,1% per impossibilità di trovare un lavoro a full time (42,3% per gli uomini). Anche nel lavoro a tempo determinato le lavoratrici prevalgono (12,2% di donne contro l'8,2% di uomini). Anche qui è elevato il tasso di "non scelta" pari al 40,8%. Vi è inoltre un aumento considerevole delle occupate in orari non standard ( dal 1993 al 2003 l'incremento è stato del 16,9%, mentre per gli uomini si registra un decremento del 3,1%9 ).

In realtà le norme contenute nel provvedimento puntano ad una frantumazione del mondo del lavoro, ad una disarticolazione delle forme della rappresentanza, alla individualizzazione del rapporto di lavoro, allo snaturamento, attraverso gli enti bilaterali, della stessa funzione del sindacato. Le circa quaranta forme di contratto avranno meno tutele e saranno senza un reale diritto alla retribuzione in caso di malattia e infortunio, senza una copertura previdenziale dignitosa. In sostanza il lavoro diventa "merce" e la lavoratrice (e il lavoratore) dovrà essere sempre a disposizione dell'impresa.

Incerti sono inoltre i diritti legati alla maternità.

Sicuramente aumenterà la precarietà e di conseguenza aumenteranno i ricatti e le molestie sessuali.

Saranno inoltre pesanti le ricadute sulla previdenza e sul futuro pensionistico delle nuove generazioni.

Prendiamo ad esempio il part time. Il decreto introduce nuovi assetti normativi che dovrebbero incrementarne il ricorso , riducendo i vincoli e gli oneri del datore di lavoro, ma rendendo la vita impossibile alle lavoratrici e ai lavoratori, che scelgono questa tipologia lavorativa proprio per conciliare i tempi di vita e i tempi di lavoro. Infatti le modifiche all'attuale normativa ampliano il ricorso e l'incertezza della durata del lavoro supplementare e flessibilizzano la distribuzione dell'orario concordato, riducendo gli spazi di contrattazione e di volontarietà.

Vi è poi il "lavoro intermittente". Esso è caratterizzato in via essenziale dall'incertezza della prestazione, che dipende esclusivamente dall'atto della chiamata al lavoro da parte del datore di lavoro e solo in via secondaria dalla disponibilità del lavoratore a farvi fronte. Il lavoro a intermittenza è immediatamente disponibile per i lavoratori con più di 45 anni espulsi dal ciclo lavorativo o iscritti in mobilità e al collocamento, o per i disoccupati con meno di 25 anni, confermando che per gli svantaggiati questo governo è particolarmente premuroso.

Persistono difficoltà interpretative rispetto alla proporzionalità di molti istituti. Ad esempio non è chiaro nel caso dei periodi di maternità e di congedi parentali, cosa significa la proporzione temporale nella fruizione. Infatti il congedo per maternità è definito per legge come "astensione obbligatoria", il congedo parentale è invece un'astensione facoltativa. Ci auguriamo che il legislatore non abbia inteso prendere come riferimento il criterio delle ore prestate nell'anno precedente, perché questo di fatto lederebbe i diritti legati alla tutela della maternità e della paternità.

Altra forma di contratto "innovativa" è il lavoro ripartito , conosciuto anche con il termine "job sharing". Esso prevede che si può lavorare in coppia sulla base di un unico rapporto di lavoro. Ciascun lavoratore stabilisce con l'altro la quantità di lavoro che svolgerà, e sarà retribuito in conseguenza. Il testo non cita la maternità: sarà una dimenticanza o in quel caso si applica la legge integralmente per entrambi?

Il venir meno della disponibilità di uno dei lavoratori a proseguire il rapporto determina automaticamente il licenziamento anche dell'altro, a meno che il datore di lavoro offra al lavoratore rimasto di restare in azienda con un "normale" rapporto di lavoro, anche a part-time. L'impedimento di entrambi i lavoratori autorizza il datore di lavoro a sciogliere il vincolo contrattuale per entrambi.

Il paradosso è che questo insieme di norme che irrigidiscono la flessibilità, così decantata dalla legge Biagi, non sembrano avere prodotto un risultato apprezzabile.

Il lavoro a tempo parziale è diffuso soprattutto fra le donne, ma occorre ricordare che prima dell'introduzione della suddetta legge il part-time era un contratto di lavoro "tipico", con le stesse tutele del lavoro a tempo pieno. Dalle ultime rilevazioni sulle forze di lavoro risulta che nel secondo trimestre del 2004 vi è un aumento dell'1,7% dell'occupazione a tempo pieno, una diminuzione dello 0,4% di quella a part time rispetto al secondo trimestre del 2003. E' del tutto evidente che è difficile fare un'analisi compiuta di questi dati che peraltro non sono disaggregati per genere, ma si può pensare che il nuovo part-time non è gradito dalle donne!



La previdenza

A proposito della cosiddetta riforma previdenziale recentemente approvata (legge 243 del 23 agosto 2004) è utile sottolineare come essa sia sostanzialmente contro le donne.

L'eliminazione della flessibilità dell'età pensionabile prevista nel sistema contributivo (57 -65 anni di età) ed il reinserimento di un'età pensionabile fissa ed obbligatoria (60 anni per le donne e 65 anni per gli uomini) è cosa che ovviamente colpisce i diritti di tutti perché il diverso modo di calcolo della pensione previsto nel sistema contributivo era ed è strettamente interconnesso alla libera scelta delle lavoratrici e dei lavoratori di poter andare in pensione a determinate età, con la consapevolezza di percepire un determinato trattamento. Per quanto riguarda la specificità di genere tale norma significa che le lavoratrici dovranno lavorare almeno tre anni in più rispetto a prima, fermo restando il fatto che per poter andare in pensione a tale età dovranno avere anche gli altri requisiti di legge e cioè almeno 5 anni di contributi e un importo di pensione pari ad almeno 1,2 volte l'importo dell'assegno sociale. Ricordiamo che nel sistema contributivo l'età pensionabile flessibile ha anche significato la parificazione dei requisiti per il diritto alla pensione tra uomini e donne, cosa che ha permesso il superamento di vecchie e sterili polemiche che, purtroppo si ripropongono ogni volta che ci sono da recuperare nuove entrate previdenziali in merito alla presunta necessità, in nome di una parità assoluta, di prevedere l'innalzamento dell'età pensionabile obbligatoria delle donne, eguagliandola a quella degli uomini.

E' previsto che la totalizzazione (cumulo) dei contributi sia possibile anche per coloro che raggiungono il diritto alla pensione nel singolo fondo, gestione o cassa previdenziale, solo se si hanno almeno 65 anni di età o si raggiungano i 40 anni di contribuzione, indipendentemente dall'età anagrafica, e semprechè ogni periodo contributivo versato presso ogni singolo fondo sia stato di durata almeno pari a 5 anni

La norma è penalizzante per le lavoratrici, che maturando il diritto alla pensione di vecchiaia a 60 anni, dovrebbero comunque attendere i 65 per poter usufruire della totalizzazione e quindi per poter percepire un unico trattamento di pensione, corrispondente al cumulo di tutti i periodi contributivi versati o accreditati. La norma dovrebbe essere modificata facendo riferimento per il diritto alla totalizzazione al raggiungimento dell'età pensionabile prevista nel sistema pubblico obbligatorio.

La modifica delle norme sul diritto alla pensione di anzianità prevede, a decorrere dal 1 gennaio 2008, per tutti i lavoratori un innalzamento secco di almeno tre anni di età ( in alcuni casi diventano anche cinque) per poter maturare l'accesso al trattamento pensionistico. Nel 2008 saranno infatti necessari, oltre ai 35 anni di contribuzione, 60 anni di età, che diventeranno 61 nel 2010 e 62 nel 2014. Ciò significa che di fatto per le lavoratrici la pensione di anzianità viene cancellata, dal momento che l'età prevista per il diritto alla pensione di anzianità coincide con l'età prevista per il diritto alla pensione di vecchiaia ( a meno che nella mente del Governo non rimanga sempre il sottile pensiero di poter prima o poi procedere all'elevazione dell'età pensionabile obbligatoria per le lavoratrici). Né è da prendere in alcuna considerazione la possibilità che viene concessa, in via sperimentale e comunque fino al 2015, alle sole donne di poter continuare ad andare in pensione di anzianità con i vecchi requisiti di 57 anni di età e 35 di contribuzione, alla condizione che optino per il sistema di calcolo contributivo: si tratta di una misura ridicola, pericolosa e soprattutto estremamente penalizzante per le lavoratrici, alle quali verrebbe semplicemente riconosciuto il diritto ad andare in pensione prima, in cambio di un trattamento pesantemente ridotto. Non sono questi gli sconti che debbono essere fatti alle lavoratrici: si tratta, infatti, di misure false e demagogiche, che non salvaguardano assolutamente i diritti acquisiti.





Lavoratrici Immigrate ( Donne immigrate)

Per quanto riguarda le donne immigrate - importante risorsa sia per le famiglie (poiché le lavoratrici immigrate impegnate come ausiliarie famigliari permettono alle donne italiane la conciliazione lavoro-famiglia), sia per l'economia del paese - l'utilizzo del linguaggio di genere è improprio. La segregazione orizzontale e verticale, oppure il soffitto di cristallo, non riguardano il loro mondo del lavoro. L'unico linguaggio possibile è "segregazione, segregazione, e segregazione". Il soffitto di cristallo diventa di cemento e la mobilità all'interno del mercato del lavoro è impossibile. Le lavoratrici immigrate, in maggioranza diplomate o laureate, arrivano in Italia con una professionalità ed esperienza di lavoro che non sono mai riconosciute e sono costrette a lavorare, salvo poche eccezioni, nel settore dell'assistenza alle persone ed alle famiglie o come donne di pulizia.

Con la legge 30/2002, n. 189, la nuova legge sull'immigrazione chiamata Bossi-Fini, l'ingresso per lavoro è vincolato alla stipulazione del "contratto di soggiorno per lavoro" ed i lavoratori immigrati da cittadini stranieri diventano soltanto forza lavoro. L'ingresso regolare per le donne diventa impossibile perché le famiglie italiane preferiscono l'assunzione diretta e difficilmente assumono una lavoratrice senza conoscerla.

La legge Bossi-Fini ha introdotto modifiche restrittive alcune delle più importanti riguardano la possibilità di ingresso e permesso di soggiorno per lavoro solo a seguito di un contratto di soggiorno per lavoro e, in caso di perdita di lavoro, la possibilità di iscrizione nelle liste di collocamento per sei mesi. Il ricongiungimento familiare ha subito importanti restrizioni in particolare nel caso dell’ ingresso dei genitori e figli maggiorenni. Pur avendo parità di trattamento in ambito previdenziale, sono penalizzate in caso di prestazioni di natura non contributiva, ovvero le prestazioni assistenziali ( assegni di maternità e invalidità civile , ad esempio, solo con carta di soggiorno) .

Questi aspetti evidenziano come oggi le donne regolari in Italia siano in una condizione di precarietà e disagio. Il testo unico sull’immigrazione del 1998 aveva lo scopo di affermare quei diritti di cittadinanza sociale che devono essere l’obiettivo di una seria politica dell’immigrazione in Italia; con la Bossi Fini si è tornati indietro perché quei diritti non sono garantiti come lo erano in precedenza.

Per quanto riguarda le donne richiedenti asilo in Italia, le rifugiate, sono penalizzate dalla mancanza di una legge organica sul diritto di asilo. Inoltre, in occorre ricordare che l‘Italia insieme alla maggiore parte dei paesi Ue non ha ancora ratificato la Convenzione Onu per la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e delle loro famiglie del 1990 .

Così si arriva con il visto per turismo e alla sua scadenza se passa alla clandestinità e conseguente precarietà. Il pericolo di finire in un CPT( Centri di Permanenza Temporanei ) è reale. In questi centri si riuniscono tutti gli immigrati irregolari; molti avrebbero diritto alla richiesta d'asilo; molte donne, vittime della tratta, alla protezione sociale e così via. L'impossibilità da parte delle organizzazioni di volontariato di portare loro assistenza fa sì che siano espulsi dall'Italia indipendentemente dai loro diritti.

La mancanza di garanzie reali rende l'accesso al credito impossibile. Non è possibile nemmeno fare un finanziamento per l'acquisto di un bene di consumo. L'unica possibilità di credito per le immigrate in questo momento è attraverso due progetti pilota per il microcredito alle donne immigrate. Uno in programma nella Provincia di Roma, promosso dalla Fondazione Risorsa Donna di Roma e Compagnia San Paolo di Torino, in collaborazione con la Banca San Paolo Imi, che offre alle donne immigrate la possibilità di avviare una microimpresa oppure di qualificarsi professionalmente, attraverso un percorso formativo che garantisca un sbocco occupazionale. L’altro nella città di Torino, promosso dalla Ass. Alma Mater, in collaborazione con le banche etiche MAG 2, MAG 4 e AGEMI, offre alle donne immigrate microcredito per soddisfare molteplici bisogni.





Politiche sociali e sanitarie



Salute riproduttiva

Secondo l'organizzazione dei Servizi Sanitari della Repubblica Italiana, i consultori sono il presidio territoriale deputato alla prevenzione della salute delle donne. Relativamente ai Servizi di Prevenzione rivolti alla donna, l'OMS definiva il Consultorio un ambulatorio di primo livello che si occupa di salute riproduttiva e di prevenzione dei tumori femminili Tuttavia essi sono in progressiva smobilitazione. I Consultori dovevano essere potenziati fino a realizzarne uno per ogni 15.000 abitanti. Ma questo disegno non è mai stato portato a compimento, non c'è un censimento di quanti essi siano attualmente.

L'Italia è il secondo paese dopo il Brasile per il numero di Tagli Cesarei; non sono in atto politiche tese a ridurre il fenomeno e a informare le donne sui rischi connessi.

Rispetto all'interruzione volontaria di gravidanza, non vengono messe in atto quelle : " procedure più avanzate per le donne" (Legge 194/1978 art.15 ): gli aborti medici con RU486 ( Mefegyn), i cui vantaggi rispetto a quelli chirurgici sono ampiamente dimostrati a livello clinico, psicologico ed economico, sono ampiamente realizzati in altri paesi europei (650.000 in Europa), ma in Italia non sono di fatto consentiti .I medici italiani che praticano il servizio di IVG secondo la L.194/78 intendono fare una petizione alla ditta EXELGYN, al Ministero della Sanità, alla Commissione del Farmaco affinché in Italia venga commercializzato il prodotto RU486 come negli altri Paesi Europei.



Asili nido

La legge 285/1997 e la legge 265/2000 consentono e promuovono una nuova tipologia dei servizi per la prima infanzia, che prevede servizi gestiti dalle famiglie o da associazioni, micro-asili, flessibilità negli orari, ecc. Alcune Regioni hanno già legiferato in questo senso e svariate sono le iniziative dei Comuni. Sono in atto alcuni cambiamenti che occorre monitorare con attenzione, in modo che si mantengano gli standard di qualità cui non possiamo, né vogliamo rinunciare. Compito delle amministrazioni pubbliche è soprattutto quello di fissare e mantenere il controllo su tali standard, quando non sono più in grado di provvedere direttamente all'erogazione dei servizi. Rispetto agli asili nido aziendali - alcuni, ma ancora molto pochi, sono stati aperti -, il problema è estremamente controverso. Infatti da un lato si teme che si ritorni ad una logica di tutela dell'azienda, come era prima degli anni settanta, quando aziende illuminate, come ad esempio Olivetti o Pirelli, fornivano alcuni servizi ai propri dipendenti, per permettere a padri e madri la permanenza nei luoghi di lavoro. Poiché in Italia è stato privilegiato, giustamente, nell'ultimo trentennio un sistema territoriale nel quale l'attenzione si è fortemente concentrata sulle esigenze educative dei bambini e delle bambine, si paventa il rischio che i nidi aziendali assumano una funzione di parcheggio, che siano collegati solo alle lavoratrici madri - e non ai lavoratori padri - e che siano soprattutto funzionali alle esigenze delle aziende

Dall'altro lato, è innegabile che ci sia un estremo bisogno di asili nido, soprattutto se si considera il fatto che la copertura di posti è attualmente ferma al 6%, anche se la richiesta di copertura dell'Unione Europea per l'anno 2010 è al 33%.





2. INSTITUTIONAL MECHANISM TO PROMOTE GENDER EQUALITY



Presenza delle donne nelle istituzioni: Riforme elettorali e Statuti Regionali

In Italia il problema della rappresentanza delle donne nelle istituzioni pubbliche, e in particolare nella gestione politica, è ormai irrinviabile. Siamo al 73° posto in una graduatoria di 183 Stati, con 71 donne alla Camera (11,05% del totale dei membri) e 26 al Senato (8,01%).

I dati dimostrano inequivocabilmente come le donne italiane siano in condizione di svantaggio rispetto a quelle degli altri paesi europei e del resto del mondo. (In allegato i dati sulla presenza femminile nelle istituzioni locali elettive).

Il governo e la sua Ministra dovrebbero interrogarsi sul fallimento totale della loro azione e sul non raggiungimento degli obiettivi definiti nella piattaforma di Pechino. Quali sono stati gli interventi legislativi che ha messo in atto il governo italiano dopo la modifica degli art.51 ( all'articolo 51, primo comma, della Costituzione, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: "A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini) e 117 comma 7° della Costituzione? Nessuna campagna di sensibilizzazione significativa sulle pari opportunità è stata svolta dalla Ministra; l'unico intervento legislativo è stato fatto per le elezioni del parlamento europeo con la legge 6 aprile 2004 dove all'art.3 comma 1: "nell'insieme delle liste circoscrizionali nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi". La norma introdotta è molto blanda. Nessun modifica è stata introdotta sulla legge elettorale nazionale e nessun intervento è stato promosso dal Governo nazionale sulle Regioni per spingere queste ultime a rispettare il dettato costituzionale dell'art.117 comma 7° che prevede l'introduzione nelle leggi elettorali di norme per il riequilibrio della rappresentanza: "le leggi regionali devono rimuovere ogni ostacolo alla piena parità tra donne e uomini nella vita sociale,culturale ed economica, promuovendo la parità di accesso alle cariche elettive e di governo". Le uniche Regioni che hanno votato una nuova legge elettorale ad oggi sono la Sicilia e la Toscana. La prima, grazie ad una forte campagna di pressione esercitata dalle associazioni di donne e dall'intervento del Commissario dello Stato, è riuscita a introdurre l'alternanza uomo donna nella lista regionale composta da otto candidati e la norma dei 2/3 nelle liste provinciali; la Toscana ha eliminato la preferenza unica e ha inserito la norma dei 2/3. Se non interverranno miracoli istituzionali nelle prossime elezioni regionali previste in primavera, le Regioni violeranno palesemente un dettato costituzionale, e a farne le spese saranno ancora una volta le donne italiane.

Le Regioni che hanno approvato gli statuti sono: Abruzzo, Calabria, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Marche, Puglia, Sardegna, Toscana, Umbria, Valle d'Aosta, ma su molti pendono i ricorsi del Governo.





Le politiche per le pari opportunità nel contesto europeo

Poiché l'Italia si appresta alla ratifica del Trattato Costituzionale sì che la Carta dei diritti fondamentali dell'UE possa diventare giuridicamente vincolante ( parte II del Trattato) e il diritto all'uguaglianza sostanziale tra uomini e donne diventi un obbligo, è particolarmente grave che il Governo non rispetti neppure le disposizioni dei trattati dell'Unione Europea attualmente vigenti.

Sia il TCE (Trattato di Costituzione Europea) che la Carta di Nizza, infatti, oltre al divieto di discriminazione di sesso inter alia contengono disposizioni specifiche e autonome per la promozione dell'uguaglianza tra uomini e donne. L'inserimento nella Carta di uno specifico e autonomo diritto all'uguaglianza tra uomini e donne è il risultato di una lunga battaglia condotta dalle femministe in sede europea per affermare che le donne non sono un gruppo discriminato tra gli altri. Dunque l'approccio del Ministero italiano delle pari opportunità finalizzato sulla lotta a tutti i tipi di discriminazioni previste all'art 13 TCE, negando autonomia e specificità alle politiche di pari opportunità tra uomini e donne e sussumendole all'interno del generale approccio antidiscriminatorio, si basa su una lettura parziale e riduttiva del TCE e della Carta di Nizza

Il TCE sia all'art 141 che agli art 2 e 3 configura un principio di uguaglianza tra uomini e donne che va oltre il divieto di discriminazione/uguaglianza formale e include l' uguaglianza di opportunità come aspetto dell'uguaglianza sostanziale tra uomini e donne. Anche l'art 23 della Carta enuncia esplicitamente l'obbligo di non limitarsi all'uguaglianza di trattamento ma anche di promuovere politiche per perseguire l'uguaglianza effettiva di opportunità e risultati . L'approccio del Ministero fonda, invece, i suoi compiti e funzioni esclusivamente sull'art 13 TCE e, dunque, identifica e restringe la nozione di uguaglianza tra uomini e donne all'approccio antidiscriminatorio/uguaglianza di trattamento/ uguaglianza formale. L'identificazione della nozione di pari opportunità con il divieto di discriminazione è in contraddizione con le menzionate disposizioni comunitarie e con il tradizionale approccio comunitario che fin dal 1976, oltre all'uguaglianza di trattamento, ha previsto azioni positive di promozione delle pari opportunità in ambito occupazionale e professionale. Alla luce di queste disposizioni l' attuale approccio del Ministero delle pari opportunità e la relativa definizione dei suoi compiti e funzioni risultano parziali e riduttivi.

L'annullamento della specifica prospettiva dell'uguaglianza di genere all'interno di un generale approccio antidiscriminatorio e la sovrapposizione/confusione/dissoluzione delle specifiche politiche di uguaglianza di genere all'interno delle generali politiche antidiscriminatorie non corrisponde ne' ad una corretta interpretazione del gender mainstreaming , né all'approccio duale che secondo la Commissione Europea ne sarebbe il necessario presupposto. Al contrario, il rafforzamento della prospettiva dell'uguaglianza di genere all'interno delle politiche contro le discriminazioni di razza, etnia,età handicap, religione e orientamento sessuale richiede il rafforzamento degli organismi specificamente preposti alle politiche di uguaglianza di genere. Per perseguire, conseguire e assicurare l'uguaglianza sostanziale di cui all'art 23 della Carta è perciò necessario correggere l'attuale tendenza a trasformare il Ministero delle pari opportunità in una generica struttura responsabile di tutte le politiche antidiscriminatorie.





3.TRAFFICKING OF WOMEN IN THE CONTEXT OF MIGRATORY MOVEMENTS



Il fenomeno della prostituzione coatta e delle donne trafficate dimostra negli anni una grande persistenza e si evolve continuamente per forme, luoghi, contesti, modalità: cambiano i Paesi di provenienza, le modalità di ingaggio e di sfruttamento, cambiano i luoghi e i tempi della prostituzione. Sono in atto mutamenti dovuti anche a una maturazione delle reti di sfruttamento le quali, in quanto vere e proprie aziende, sono in grado, a seconda di una analisi degli indicatori di mercato, di diversificare investimenti, di modificare struttura ed organizzazione, pur di penetrare mercati nuovi e sempre più redditizi, assorbendo merce umana dagli sterminati mercati della povertà e della miseria globalizzata.



L'art.18 della legge sull’immigrazione (legge Turco/Napoletano, n.40/1998)

In Italia dal 1996 si è cercato di affrontare il problema come proposto dalla Carta di Pechino, assunta nella Direttiva Prodi-Finocchiaro del 1997, con l'introduzione dell'art. 18 nella legge sull'immigrazione. La scelta è stata ritenuta da tutti importante per i successi ottenuti con questa norma e le politiche messe in atto dalla sua entrata in vigore sono diventate un modello seguito con grande attenzione anche a livello internazionale.

Questo articolo, collocato non a caso nella sezione dell'aiuto umanitario è considerato fortemente innovativo per il rispetto dei diritti umani delle vittime di traffico, supera radicalmente la precedente legislazione premiale e permette di rilasciare un permesso di soggiorno sia che la vittima denunci sia senza denuncia, per entrare in un percorso di protezione sociale e uscire da condizioni di pericolo e di violenza da parte dei suoi sfruttatori. Una norma a difesa di diritti fondamentali delle persone vittime di reati che hanno vulnerato gravemente la loro dignità, che in quanto tale si fa legge del più debole anche riguardo ai poteri dello stato le cui leggi, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, vengono derogate, mentre si impegnano risorse nell'opera di assistenza e integrazione sociale delle vittime. L'art.18 consente di realizzare un percorso di inclusione sociale mediante programmi di assistenza e integrazione sociale intesi come riformulazione del progetto migratorio in condizioni di legalità, sicurezza e autonomia. E' il passaggio dalla vittimizzazione al diritto di cittadinanza, ponendosi in maniera alternativa e antagonista alle reti di sfruttamento.

La norma ha dimostrato la sua efficacia sottraendo ai trafficanti, già nei primi tre anni della sua applicazione, oltre 2000 donne con permesso di soggiorno (mentre sono oltre 5000 le domande presentate dalle donne) e costruendo le condizioni della loro autonomia attraverso la formazione e l'inserimento lavorativo per oltre 80% delle persone seguite dai progetti di protezione sociale finanziati proprio grazie all'art.18 dallo stato, co-finanziati dagli enti locali, gestiti da ong competenti, e supportati da azioni di sistema come il Numero verde nazionale.



I danni della legge Bossi-Fini (legge n.189/2002)

La mancata valorizzazione di questo modello dal 2002 in poi nasce dalla modificazione intervenuta nelle politiche sulla tratta che la legge Bossi-Fini ha determinato, nonostante le dichiarazioni dei vari esponenti di governo sulla riaffermazione del valore e dell'importanza dell'art. 18.

Se infatti la Bossi-Fini mantiene l'art.18, cambiando completamente l'impianto e la filosofia della legge in cui questa norma si situa, depotenzia le possibilità positive rappresentate dall'art.18 stesso rendendo difficile l'aiuto alle vittime di tratta e il contrasto alle organizzazioni criminali.

Infatti, parte delle Forze dell'Ordine e della Magistratura, che già tendevano a considerare l'art. 18 come un dispositivo solo per i collaboratori di giustizia, sono state incoraggiate a mantenere la discrezionalità che impedisce a molte persone vittime di tratta di accedere alla protezione mediante il percorso sociale (senza denuncia), con la conseguenza di vanificare il regime del "doppio binario" previsto dalla legge, di ridurre quasi a nulla il rilascio di permessi per protezione sociale, mentre per i permessi di natura giudiziaria i tempi si sono allungati a dismisura arrivando fino a oltre 12 mesi di attesa. Di contro, laddove il percorso sociale viene applicato, si registra la dimostrazione della sua efficacia anche nel contrasto alla criminalità, poiché spesso, una volta rassicurate, le vittime decidono per la denuncia e comunque offrono informazioni preziose alle indagini. Si è creata quindi una grande divaricazione tra le questure che rilasciano il permesso di soggiorno per protezione sociale e le molte altre dove questo non è accettato, o dove la scarsità di personale o il cambio dei funzionari ha vanificato il lavoro di collaborazione precedentemente in atto ed è scomparsa la figura del referente unico.

Altri problemi derivano inoltre dall'allungamento dei tempi nelle procedure a causa dell'intasamento delle Questure per le rilevazioni delle impronte di tutti i richiedenti permesso di soggiorno. Questa obbligatorietà, che tocca anche le vittime di tratta, ha reso infiniti i tempi di attesa, sia delle sospensioni delle espulsioni (all'atto della richiesta del primo art.18), che delle revoche delle espulsioni (all'atto della trasformazione dell'art.18 in permesso di lavoro o attesa lavoro). Le ragazze sono costrette a tornare anche sei/sette volte in Questura, in quanto la data dell'emissione dei permessi viene continuamente posticipata. Sono stati segnalati casi di ragazze, in possesso di regolare permesso di soggiorno per lavoro, che sono state espulse dalle forze dell'ordine perché considerate prostitute,"dimenticando" che in Italia la prostituzione non è reato. Con la legge Bossi-Fini si è determinata quindi una situazione caratterizzata da confusione nell'applicazione dell'art.18 e abusi originati da errate interpretazioni, con grave difficoltà delle donne trafficate e dei progetti di protezione sociale.

Questi i danni principali:

Aumento dell'azione repressiva delle forze dell'ordine, rimpatri coatti e reclusione nei CPT (Centri di permanenza temporanea). La politica del governo si sta traducendo in frequenti retate che hanno come esito rimpatri di massa che, ancor meno del passato, valutano la situazione del singolo, con conseguente violazione del diritto delle persone a beneficiare dei percorsi di cui all'art.18. Per le donne vittime di tratta le più gravi conseguenze si registrano per il configurarsi del reato di clandestinità, che le rende soggetti particolarmente vulnerabili alla politica repressiva attuata dal Governo. Non viene più offerta la possibilità del rientro assistito ed onorevole nei paesi di origine, progetto approvato come azione di sistema della Commissione art.18 nel 2001 che consentiva di circoscrivere fenomeni di immediato rientro nel territorio italiano ad opera di organizzazioni mafiose che sempre più tendono a vanificare le espulsioni effettuate, aggravando, fra l'altro, lo stato di soggezione delle vittime dello sfruttamento Le donne che sono trattenute nei CPT, sono, nella quasi totalità, prostitute fermate sulla strada senza permesso di soggiorno. Dal CPT si esce con l'ingiunzione a lasciare il territorio nazionale o con rimpatrio coatto, e le donne non vengono informate delle possibilità offerte dall'art.18. La nuova legge sull'immigrazione, spostando le risorse umane ed economiche delle forze dell'ordine dall'azione investigativa (lotta ai trafficanti e sfruttatori) a quella repressiva (azioni ad alto impatto mediatico con retate ed espulsioni, facendo leva sul sentimento di insicurezza dei cittadini), con l'illusione di poter arginare l'immigrazione clandestina e di impedire i reingressi, criminalizza le vittime di tratta, induce in loro la paura delle espulsioni e degli arresti, le sottrae alle possibilità di contatto da parte delle unità di strada e delle stesse forze dell'ordine, le spinge sempre più ad invischiarsi per i loro progetti migratori con le reti di sfruttamento, individuando le forze dell'ordine e quindi lo stato italiano non più come un soggetto a cui chiedere aiuto, ma come un problem

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