Di cosa ti occupi? Occupazioni anomale e anomalie della risposta sociale
Judith Butler dice: "offriamo il femminismo". Come lei penso: "C'è un certo modo più ampio di pensare i diritti, la libertà e il pubblico che è emerso dalla teoria femminista deve avere un ruolo nel discorso politico"
Diversi anni fa ad una cena mi chiesero "di cosa ti occupi?". Allora facevo ancora felicemente il lavoro per il quale avevo studiato, con un più che discreto ritorno economico. A distanza di tempo, spesso mi chiedo "di cosa mi occupo?". Lo faccio per tirarmi su il morale elencando le almeno dieci cose sulle quali sono contemporaneamente impegnata ogni mese. Tra queste non c'è mai il lavoro che svolgo. Perché non è il lavoro per cui ho studiato. Perchè non mi appassiona. Perchè economicamente non mi dà stabilità.
E' diverso chiedere "di cosa ti occupi?" e "che lavoro fai?". La prima domanda mette più a suo agio chi come me fa un lavoro inappagante, la seconda ti inchioda alla realtà dei fatti: se il lavoro che fai nell'immaginario collettivo dovrebbe rappresentarti, è pur vero che per molte di noi dire che fai la segretaria, o che ti occupi di comunicazione, vuol dire tutto e niente. Non ti colloca più in una dimensione sociale definita, apre piuttosto parentesi che andrebbero riempite con dei però mi sono dottorata..., però nel tempo libero faccio..., però...Chiedere oggi che lavoro fai potrebbe aprire scenari che l'interlocutore non è in grado di riempire. Che non sono più rappresentativi.
Ognuna di noi avrebbe le sue storie da raccontare rispetto ad amici storici dell'arte che fanno gli educatori nei centri estivi, o di laureati in lettere che rispondono al telefono in qualche fondazione della diocesi bergamasca.
C'è tutto un universo italiano neanche tanto sommerso che "fa cose", progetta, crea, rielabora, studia ma spesso in contesti extra-lavorativi, o in contesti che ci piacerebbe che diventassero lavorativi ma che non forniscono sufficiente reddito e pertanto relegano ad attività notturne, a pause pranzo che diventano riunioni di lavoro, a week end di studio matto e disperato. Da questo universo ogni santo giorno dell'anno, l'Italia che lavora trae suggerimenti, aiuti, sostegno, creatività. Quotidianamente, le associazioni di volontariato, i precari, i voucher, contribuiscono attivamente a che il Paese sia più ricco di risorse, più vitale.
Questa cosa è sotto gli occhi di tutti, ma è più furbo e più facile fare finta di niente, camuffare. Sono scenari comuni, ampiamente praticati, figli di un tempo in cui il muoversi liquido delle professionalità ha aperto interessanti modi di stare al mondo e di sopravvivere alla crisi delle banche e del capitalismo che è precipitata sulla testa dei nati negli anni Ottanta. Io sono nata nel '77 e pensavo "io speriamo che me la cavo", ma mi sono dottorata in storia del libro e adesso mi occupo di vela e di sport, e non sono né velista, né sportiva.
Lavoro da quindici anni e avrò sì e no otto anni di contributi. Il mio stipendio è rimasto invariato: mille euro prendevo nel 2001 e mille euro prendo quindici anni dopo. Mi sono sposata, ho traslocato due volte, ho comprato casa, mio marito si è messo in proprio, e io continuo a prendere mille euro. Se fossi sola, in una città come Genova, dovrei dividere la casa con altri per sopravvivere con il mio stipendio. E' la constatazione di un tempo immobile - quello del mio salario - e di un tempo vorticoso, quello della mia vita, che non sono andati all'unisono.
La tristezza è dover mensilmente constatare che per fortuna mio padre ogni tanto ci regala duecento euro. La bellezza è aver scoperto il riuso, il riciclo, gli abiti usati, i contadini a km0, i GAS, le cooperative agricole, la resistenza 2015 insomma. Alla fine, da borghese savoiarda, ho scoperto di essere comunista votata alla decrescita, a favore della revisione del debito pubblico, certa che se una risata li sommergerà - sommergerà i padri padroni, i padri che consigliano, i padri finanziari, i padri stupratori, i padri delle pacche sulle spalle - questa non potrà che essere una risata collettiva, bella sonora, intensa. Una risata di tante e di tanti.
Di questa vita anomala che ci è toccata in sorte amo la condivisione della rete wi-fi con la vicina, i mercatini degli abiti con le colleghe, il blablacar, l'attenzione speciale al territorio che mi ha restituito una vicinanza inaspettata con le cose, la sostenibilità, il bisogno forte, cogente, di un agire politico quotidiano che travalica l'impegno partitico per farsi voce corale e necessaria. Dalla massa di pezzenti brulicanti che si muove nello spazio del "non-lavoro" ho tratto molte cose buone, che serbo come riserva per i momenti di insicurezza: la riscoperta del "dono" come scambio disinteressato, della mutualità come sostegno libero, dell'austerità vissuta come valore che restituisce dignità alle cose.
Della massa dei taluni che guardano con sufficienza i peones che si agitano informi nel "non-lavoro" disprezzo la cecità dell' "inventatevi un lavoro", "è tempo di farselo da sé il lavoro". Della massa degli ottimisti a tutti i costi disprezzo la facilità dei tweet e l'imbroglio celato del camuffo di cui dicevo più sopra.
Molti di noi non temono le sfide, hanno ancora il coraggio di essere presenti e di alzare la mano, ma non avremo trentanni in eterno e a tratti temo che il futuro non potrà raccontare sempre con l'happy end il coraggio di certe scelte. Io un lavoro non voglio inventarmelo, voglio potermelo scegliere e misurare sulle mie competenze. Non voglio uno spazio casalingo condiviso tra il pane e marmellata e il pc. Voglio poter decidere se lavorare da casa seguendo le mie ambizioni, i miei desideri.
Se non fossi stata femminista non so se sarei arrivata a dire con tanta forza "io voglio!". Se non fossi stata femminista l'urgenza dell'affermazione della mia libertà non mi avrebbe dato gli strumenti per volere liberare anche il resto del mondo. Se non fossi stata femminista sarei stata più triste, più pigra, meno motivata. Quando senti che qualcosa continua a non girare per il verso giusto solo perché il tuo nome finisce in "a", capisci che non puoi smettere di tenere la guardia alta e di cercare alleanze positive: di costruire relazioni, mutualità che destrutturano un sistema iniquo, pesantemente iniquo, quale quello in cui viviamo.
Oggi la domanda è se possiamo dare - e se ci interessa dare - valore economico a ciò di cui ci occupiamo: a ciò che è per definizione lavoro e a ciò che per definizione non lo è. Se sciogliamo questo nodo possiamo anche capire se come femministe guardiamo al futuro con un'idea di lavoro femminile all'interno della congerie capitalista o se lo vogliamo svincolato dalla mercificazione e monetazione del tempo e delle persone.
Non credo sia una questione da poco.
L’altra domanda è come si fa a creare lavoro, come si fa a garantire a tutte, a tutti, una vita dignitosa. Alcune proposte al volo: riduzione dell’orario di lavoro (perché il lavoro c’è, ma o si lavora moltissimo o non si lavora), congedi parentali obbligatori, valorizzazione della maternità come responsabilità sociale (quindi riposizionamento del corpo femminile nella visione politica generale), autogestione di spazi tempi e realtà aziendali, potenziamento degli scambi non monetari.
Penso che se riuscissimo a formulare una proposta di rottura con il sistema che ci ha piegate per millenni, riusciremmo ad indicare il femminismo - con le sue prassi, con la sua costruzione di genealogie - come "altra via". Vogliamo veramente che la cura del mondo che abbiamo impastato fra le nostre mani per millenni, sia da conteggiare fra gli indicatori di reddito? Vogliamo veramente che il capitale delle relazioni, la capacità di essere multitasking, entrino a far parte del bagaglio di un neutro indifferenziato che non riconosce meriti a nessuno? Che si declina a sinistra per darci altri padri fondatori?
Judith Butler dice: "offriamo il femminismo". Come lei penso (e cito dal DWF, 2014 2-102, p. 15): "C'è un certo modo più ampio di pensare i diritti, la libertà e il pubblico che è emerso dalla teoria femminista deve avere un ruolo nel discorso politico più generale." Ripartirei da qui con la voglia che ci contraddistingue di fare le cose insieme, cosa non banale, né tantomeno scontata. Il bello delle donne è anche la voglia di cantare in coro ognuna con la propria voce.
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