Proprio pochi giorni fa su Pasionaria, sito femminista vitale e pieno di cose interessanti, è uscito un pezzo firmato dalla sua fondatrice, la giornalista BenedettaPintus, che parlava della sua ciccia. Il pezzo è piaciuto molto ed è stato largamente condiviso perché racconta in maniera schietta quello che succede a una donna giovane che mette su dei chili.
L’argomento mi coinvolge moltissimo perché anche io ho rotolini in più che sbucano impietosamente da varie zone. Nella mia vita non sono mai stata magra (se non per sei mesi nel 2003) e ho spesso desiderato di pesare di meno. Però, nonostante questo, se ripenso alle decine di dietologi che ho consultato negli anni, agli abbonamenti in palestre da me poco frequentate e alle immagini di me magra prima di addormentarmi come pensiero positivo (altro che pecore) posso dire che in fondo, pur volendo spesso “cambiareaspetto”, non sono mai stata davvero infelice a causa del mio corpo. Al contrario è lui che ha pagato tante volte e in tanti modi il mio stress, le mie insicurezze, le mie frustrazioni.
Non averlo curato e non curarlo tanto quanto il mio amico Luca, splendido uomo gay conoscitore di ogni soluzione che cancelli la normale dotazione di difetti estetici che la natura assegna agli umani, avrebbe voluto e vorrebbe, non significa che gli altri si possano arrogare il diritto di dirmi come dovrei essere. Ma non sono sempre stata così serena. A questa consapevolezza di me, a questa inattaccabilità ci sono arrivata con gli anni e indubbiamente attraverso il femminismo. Quell’idea rivoluzionaria che le donne possano essere libere, autodeterminate, consapevoli, felici. E che qualsiasi attacco a tutto questo vada respinto al mittente.
Scrivo in merito a questo ispirata dal dibattito che si è scatenato dopo che la scrittrice MichelaMurgia sulla sua pagina Facebook ha scritto uno status commentando l’ultima copertina di Marie Claire (foto di questo post). “Quando cominceremo a reagire sul serio e tutte insieme alla costruzione di una simile idea di donna?”. E in un post successivo ha aggiunto, sempre riferendosi all’immagine: “Quell'idea di donna si fonda sull'estetica dell'infelicità. La morte, e quindi anche la mortificazione, che ne è la declinazione simbolica, ci fa belle”.
Le ha risposto una giornalista dell’Unità, AlessandraSerra, nel pezzo “Anoressica a tua sorella” (già il titolo promette bene) in cui scrive “È un’idea di emancipazione femminile, quella della Murgia, offensiva e pericolosa, perché passa per quella pratica di body shaming (l’insulto a vergognarsi del proprio presunto difetto fisico) che è una delle derive peggiori della cultura del nostro tempo”. E conclude: “Penso alle ragazze magre e insicure di oggi che hanno visto quel post di Michela Murgia, e dico a loro, fregatevene, tutta invidia”.
Francamente mi cadono le braccia per vari motivi. E’ abbastanza evidente che il punto sollevato dal post della Murgia non sia il peso della modella, la sua presunta o reale anoressia, quanto l’utilizzo in copertina di una foto così lontana da un’idea di bellezza vitale, forte, consapevole, personale nel senso di rispondente solo ai desideri della persona che la incarna, e lontana o comunque incurante dei canoni che, per esempio, la moda degli ultimi decenni propone.
Moda e anoressia del resto sono argomenti che spesso vanno insieme e non perché le femministe (nell’articolo descritte come vecchie in senso dispregiativo. Insomma, trovatevene un’altra di cantilena. Raimondo che barba, che noia) passino il tempo ad attaccare le riviste femminili, ma perché capita che siano proprio le modelle a raccontare le condizioni a cui devono sottostare e pubblicamente si ribellino, come ha fatto CharliHoward qualche giorno fa. Alessandra Ghimenti, un’amica filmaker che conosce meglio di me il mondo della moda, scrive in merito a questo scambio sulla copertina. “Tutti sappiamo la vita da geishe che fanno le modelle sottoposte a contratti capestro di sfruttamento da cui guadagnano poco e si stressano da morire, tutti sappiamo che il loro corpo non è loro, e che "consapevole" è l'aggettivo che meno si addice al corpo di chi cerca la carriera nella moda, e non lo dico per pietismo o per giudizio, ma perché le modelle vendono il loro corpo e la loro immagine non gli appartiene, è così che funziona, un kg in più e devi informare l'agenzia”.
Tutti lo sanno ma la giornalista preferisce attaccare la scrittrice, ignorando o fingendo di ignorare che proprio il femminismo – sia in passato che oggi, almeno il femminismo che in tante cerchiamo di praticare – ha fatto della battaglia contro il body-shaming una battaglia quotidiana. Cadono le braccia anche perché spesso leggiamo opinioni di giornalisti uomini palesemente maschilisti ma quando è una donna a scrivere io, che forse sono un po’ scema, ci rimango sempre molto più male. La giornalista dell’Unità perde un’occasione. Invece di dare un contributo, gioca al ribasso, in termini di dibattito e proposta di nuovi e diversi punti di vista. Usa tanto sarcasmo, sceglie l'attacco personale e dimostra di avere tanta voglia di litigare più che di discutere, come spesso accade nei dibattiti pubblici uomini contro donne, o donne contro donne, pronte come siamo a farci le pulci su tutto, mentre gli uomini mangiano pop corn godendosi lo spettacolo.
E anche questo, per me, è parte di quell’infelicità di cui parla la Murgia, di cui noi donne talvolta ci nutriamo come vampire assetate di sangue.
Il femminismo, al contrario, propone alle donne ben altro nutrimento: quello che viene dal vivere la propria corporeità (e più in generale la propria vita, che non mi sembra poco) infischiandosene dei canoni che siano estetici, culturali, di ruolo, scegliendo quello che è meglio per il proprio corpo e per la propria psiche, mettendosi in ascolto e diventando consapevoli dei messaggi che ci mandano in ogni diversa fase dell’esistenza. Il femminismo propone inoltre di nutrirsi insieme, trovando nelle altre donne delle possibili alleate.
Credo che non sia un caso se Michela Murgia nella frase incriminata dalla giornalista dice proprio “quando cominceremo a reagire sul serio e tutte insieme”. Per me quel “tutteinsieme” suona come un richiamo in questo senso: bionde, more, alte, grasse, magre, sportive, campionesse di sfondamento del divano, indipendentemente dal corpo consegnatoci dalla biologia e da quello che ne abbiamo fatto nel tempo, abbiamo tutte pieno diritto ad essere forti e felici. Io stessa sogno un mondo in cui le donne non si piacciano “così come sono” nel senso di non voler cambiare nulla, ma si piacciano perché consapevoli del corpo che hanno e delle potenzialità – non solo procreative!!!! – che ancora possono esplorare.
Non una lotta rotolino contro occhiaia, maniglia dell’amore contro zigomo scavato. Al centro della mia pratica femminista e di quella di molte, credo ci sia il desiderio di creare una società in cui i corpi e le menti delle donne diventino per loro spazi di autodeterminazione e consapevolezza inattaccabili. Con un po’ di onestà intellettuale si dovrebbe riconoscere che quella foto non trasmette affatto tutto questo.
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