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Devadasi, schiave predestinate nella tradizione che non muore

Devadasi, schiave predestinate nella tradizione che non muore

India - Tra le vestale e le geishe, le devadasi sono donne destinate alla prostituzione con riti medioevali. Mantengono le famiglie ma, da anziane, finiscono in povertà

Di Pietro Maria Elisa Domenica, 17/03/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2013

“Sono tutte bugie! Lo fanno per il loro vantaggio. Non ascolterò nessuno!Voglio andare a scuola, lavorare, sposarmi, avere una famiglia normale. Ci dedicano a un dio, poi dobbiamo cercare il cibo come cani”: un coro di ragazze dall’India del Sud rinnega il destino imposto dalla famiglia. Ha chiara percezione della condizione di devadasi, letteralmente ancella di dio, nella realtà sinonimo di schiava se non addirittura prostituta e ne denunciano il paradosso. È l’appellativo di coloro che sono consacrate e sposate a Yellamma, madre dell’universo, dea della fertilità, venerata nel cuore dell’India antica (Karnataka, Andrha Pradesh, Maharashtra, Tamilnadu). La devadasi è un ibrido tra la vestale e la geisha, con analogie evidenti: ruolo sacerdotale e divieto di matrimonio; educazione alle arti classiche (danza, canto e musica) a spese di un mecenate e abilità come profumeria, conversazione, Kamasutra; involuzione da ministra di culto a intrattenitrice, da cortigiana a prostituta.

Origina dalla mitologia del sacro declinato al femminile (2.000 a.C.), il termine compare in documenti del XII sec. d.C., ma la pratica era consolidata nel II sec. d.C. e conferiva uno status speciale e prestigioso, trasmissibile in linea femminile. Fino al X sec. d.C. le devadasi erano vergini dedicate per vocazione, più tardi furono destinate al godimento sessuale di sacerdoti e pellegrini indù. Nell’India Medievale erano istruite e raffinate, le uniche donne - oltre alla regina - col diritto di possedere beni, saper leggere e scrivere e il privilegio di esser escluse dalle conseguenze della vedovanza. Erano selezionate e avviate alle arti col sostegno di râja e uomini di caste elevate che le invitavano a eventi importanti e donavano loro terre e palazzi. Gli invasori arabi contribuirono al loro declino, quando saccheggiarono i templi e sottomisero le giovani più belle delle caste inferiori.

Durante il dominio coloniale inglese (XVIII secolo - 1947) furono condannate come immorali secondo i criteri della cristianità. Le componenti artistico-religiose e sessuale rimasero, ma prive di supporto, perché i templi e i loro sostenitori s’impoverirono. Emerse allora un nuovo sistema, alimentato da fattori inscindibilmente legati: religione, superstizione, tradizione, povertà e arretratezza. Il titolo è ancora ricercato: ufficialmente per celebrare la tradizione, in sostanza per ragioni socioeconomiche. È una trappola che stigmatizza e uccide generazioni di bambine, vendute per una catenina e una rendita a vita per la famiglia, non riconosciute come cittadine e private di relazioni affettive autentiche. Diventano schiave col dovere religioso di soddisfare i bisogni sessuali degli uomini della comunità, di ogni origine e casta. Se non muoiono giovani, perdono clientela, restano senza tetto, finiscono per mendicare in strada e dedicare una o più figlie e nipoti. La superstizione offre i pretesti per la consacrazione: assecondare i desideri o placare le ire della dea, compiere un gesto di buon auspicio, curare infermità e malattie, garantire la nascita di figli maschi, assicurare la fertilità del corpo e della terra. Gli obiettivi concreti non sono dichiarati: liberarsi dall’onere di una dote, un letto e una bocca da sfamare; risolvere uno stato di difficoltà, infatti le vocazioni s’impennano dopo calamità naturali, se il raccolto è scarso o non ci sono familiari maschi. La maggioranza delle devadasi vive per mantenere il parentado: paga il cibo ai fratelli, la dote e il matrimonio alle sorelle, i vizi del cognato, ecc.. Sensibilità cutanee e comparsa di nodi naturali nei capelli sono considerate segni della chiamata divina. Madri disperate smettono di pettinare o intrecciano i capelli delle figlie perché vengano notate dalle anziane, che inscenano trance per riconoscerle. L’80-90% appartiene alla casta degli intoccabili, è figlia di prostitute e proviene da aree rurali e suburbane dove ci sono solo vecchi, malati e prostitute, mentre i bambini son quasi tutti orfani sieropositivi. Ogni anno, oltre mezzo milione di pellegrini partecipa all’evento più importante dedicato a Yellamma, culminante nella notte di luna piena del nono mese del calendario indù (tra novembre e dicembre). Il traffico clandestino di giovani e bambine (5.000-10.000 l’anno) avviene nel caos infernale: tra rappresentazioni mitologiche e riti orgiastici, al ritmo ipnotico di tamburi e danze sfrenate, mentre l’odore e i petali dei fiori si mescolano alla polvere gialla della curcuma, simbolo del potere curativo della dea. Preti, amministratori del tempio e intermediari religiosi incoraggiano la dedicazione, che si compie in due tempi. La designazione avviene in età prepuberale (3-7 anni) o addirittura prima della nascita, a volte da adulte. La prescelta, lavata e unta d’olio, esegue un rito propiziatorio, indossa sari e bracciali verdi, poi spalma polvere di cocco e curcuma sul viso. Devadasi anziane le sussurrano le regole dell’istituto, poi appongono il sigillo: una collana da sposa di perline rosse e bianche, che per la bimba è solo un gioco. Diventerà esperta in arti performative, ripeterà ogni mattina il rito del bagno e adempierà a servizi devozionali: assistere e servire i sacerdoti, custodire e venerare immagini sacre, allontanare spiriti malvagi. Il secondo passo è l’iniziazione (10-14 anni): la comparsa del menarca è comunicata alle devadasi anziane e celebrata con una festa (hannumadurudu). Dopo il bagno rituale l’ancella indossa un nuovo sari, compie gesti votivi, poi segue l’imitazione di un incontro sessuale divino: un uomo paga la tassa per la verginità, le dona un’altra collana e la possiede. Il re, che aveva il diritto-dovere di deflorarla per primo, oggi è sostituito da un parente o dall’uomo che la sponsorizza e conserva il diritto di avere rapporti sessuali con lei. I tentativi di sradicare la prassi sono recenti: i primi disegni di legge risalgono al 1929, la prima dichiarazione locale d’illegalità del matrimonio donne-idoli al 1934 e fu estesa a tutta l’India solo nel 1988. La condanna comporta una multa risibile (massimo 140 dollari) e la reclusione da 3-5 anni. Inoltre la legge è difficilmente applicabile perché richiede prove dettagliate. Ricerche e statistiche mostrano che il fenomeno persiste soprattutto in Karnataka, Andrha Pradesh e Maharashta. Due terzi delle devadasi vivono nei quartieri metropolitani a luci rosse; un terzo resta nei villaggi e alterna la prostituzione a lavoro agricolo o manuale per un dollaro al giorno. La percentuale di sieropositive (60%.) è tra le più alte al mondo: non usano preservativi, convinte che la dea le guarirà. Le più attraenti guadagnano cifre eccezionali (oltre 20 dollari a notte) rispetto alla media (mezzo dollaro). Il tasso delle minorenni è inaudito: il 20% è costituito da teenager che rappresentano il 70% delle prostitute bambine in India. Un tempo la maggioranza era analfabeta, oggi molte sono istruite, ma il livello di rassegnazione è alto. Percepiscono il loro stato come un male minore inevitabile o addirittura un’opportunità di lavoro, un modo per essere indipendente, preferibile al ruolo di moglie, perché non devono obbedire agli ordini del marito, ma fanno affari, guadagnano e possono scegliere gli uomini. Sono convinte che la famiglia non le abbandoni perché ha bisogno di loro, ma se vogliono cambiar vita vengono cacciate di casa o vendute ai bordelli e tentano il suicidio se non riescono a scappare. Ong, onlus e attivisti, supportati da religiosi e filosofi riformatori, sostengono l’idea di eguaglianza fra generi e caste, ma sono osteggiati da devadasi e tradizionalisti. Occorrono azioni combinate: campagne per sensibilizzare l’opinione pubblica, far emergere il fenomeno; interventi per creare prospettive, assicurare vita dignitosa e indipendenza economica; strategie di riabilitazione; programmi di formazione professionale e avviamento al lavoro; coinvolgimento di giovani pentite in indagini e denunce. Nel 1990 sono state aperte le prime case di accoglienza: le ragazze diventano infermiere, insegnanti, anche ingegneri, si sposano e conducono vite normali, perfettamente integrate nella società.



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