Ha l’amaro sapore della beffa, congiunta al danno, l’aggravio dell’ammenda comminata a chi si presti all’aborto clandestino. Il Consiglio dei Ministri, tra gli altri provvedimenti approntati nella riunione del 15 gennaio scorso, ha deliberato la depenalizzazione di alcuni reati, prevedendo tra l’altro la trasformazione in reato amministrativo dell’illecito penale, previsto dal 2° comma dell’art. 19 della legge 194, perpetrato da chi si sottopone ad aborto al di là delle condizioni previste normativamente.
Se prima alla donna, che si sottoponeva a tale pratica interruttiva della gravidanza, veniva ingiunto dopo un procedimento giudiziario la multa fino a 51 euro, oggi invece dovrà pagare una cifra che va dai 5000 ai 10.000 euro. Andando a leggere il comunicato stampa correlato al decreto sulle depenalizzazioni, si trova scritto che: “l’obiettivo della riforma è quello di trasformare alcuni reati in illeciti amministrativi, anche per deflazionare il sistema penale, sostanziale e processuale, e per rendere effettiva la sanzione”, in funzione preventiva.
Parrebbe, a detta del Consiglio dei Ministri, che per convincere una donna a non compiere un aborto clandestino basti innalzare il limite pecuniario della sanzione, non considerando la circostanza che con molta probabilità quella donna non sarebbe incorsa in questa pratica illecita, ove avesse avuto la facoltà di interrompere la gravidanza nelle strutture sanitarie pubbliche e, soprattutto, ove questo diritto fosse pienamente soddisfatto ai sensi della stessa legge 194. In un Paese come il nostro, caratterizzato da punte di obiezione di coscienza altissime da parte dei medici, tali da configurare addirittura l’impossibilità di effettuare un’ivg in una struttura ospedaliera interamente obiettrice, il legislatore sembra vestirsi di panni pilateschi e sorvolare sulle conseguenze che l’obiezione riverbera sulla scelta di ricorrere ad un aborto clandestino. Risulterebbe difatti evidente che, ove non si trovino medici disposti alle pratiche abortive, le donne preferiscano determinarsi diversamente, al di fuori delle norme previste e delle strutture pubbliche che con i loro deficit di personale sanitario possono comportare attese e tempi non compatibili con il termine di 90 giorni entro cui effettuare un aborto volontario.
Eppure “lo Stato esercita in regime di monopolio queste prestazioni sanitarie, congiuntamente ad altre strutture convenzionate, ragione per cui deve facilitare tutte nell’usufruire in modo agevole del servizio di ivg” (Vitalba Azzolini).
In realtà la situazione attuale ci racconta altro, ossia di ospedali pubblici che registrano rilevanti tassi di obiezione di coscienza, cosicchè le donne sono costrette a migrare anche di ottocento chilometri o a scegliere di abortire in clandestinità.
Uno Stato con sembianze di carnefice che, al danno di tale scelta da sé stesso imposta, aggiunge l’ulteriore svantaggio di aumentare in modo spropositato la sanzione pecuniaria conseguente all’illecito. Invece di tutelare la paziente, perché tale è chi, volendo interrompere una gravidanza indesiderata, decide di sottoporsi al conseguente atto chirurgico o farmacologico per il tramite della Ru 486, la si affida incautamente alle pericolose braccia di una clandestinità priva delle necessarie cautele a salvaguardia della sua vita. Oltremodo beffandola anche, perché se scoperta dovrà pagare di più “per rendere effettiva la sanzione”, come recita il testo del comunicato stampa del Consiglio dei Ministri.
Una domanda sorge spontanea, ossia di fronte alla palese sconfitta delle istituzioni, incapaci di porre un argine al dilagare dell’obiezione di coscienza nelle strutture sanitarie pubbliche, non sarebbe meglio liberalizzare la pratica delle interruzioni volontarie di gravidanza, consentendole in presidi che sulla scorta di specifiche linee-guida siano in grado di tutelare il diritto alla salute ed alla vita della donna che non vuole divenire madre? Perché si preferisce non avallare tale liberalizzazione e si decide di non risolvere i problemi causati dall’obiezione alle donne che, invece, lottano contro il tempo per potere effettuare un’ivg entro i 90 giorni previsti dalla legge 194 e per non essere costrette a ricorrere all’aborto clandestino? Se allora le responsabilità risiedono in altri, non dovrebbero esser punite ulteriormente quelle donne, aumentandole le somme di denaro da pagare nel’eventualità sia scoperto il loro illecito amministrativo. Altri sarebbe il colpevole, ossia lo Stato deficitario di medici che, da non obiettori, siano in grado di garantire la prestazione sanitaria dell’aborto entro i termini previsti normativamente. Anzi, le vittime di questo reo dovrebbero persino richiedergli il risarcimento dei danni fisici e morali in cui incorre la propria salute per essere costrette ad abortire clandestinamente, altro che aumento della pena comminata fino a 10.000 euro!
Certo che l’Italia si appalesa sempre più come un Paese anormale, dove i colpevoli, come in questo caso, non solo vengono assolti, ma incassano anche cospicue somme di denaro in conseguenza delle loro omissioni, dolose o colpose.
Eppure il Consiglio d’Europa ha rimarcato le violazioni di legge in cui sta incorrendo l’Italia per non consentire l’esercizio uniforme del diritto all’aborto in tutto il territorio nazionale, proprio a causa delle diversificate percentuali dei medici obiettori presenti in ogni singola regione. Cosa altro potrebbe occorrere per indurre le istituzioni competenti a cambiare registro e ad acquisire una forte assunzione di responsabilità, in grado di trovare soluzioni congrue ed opportune per garantire ad una donna di divenire madre in libertà, autonomia e, soprattutto, vita?
Punirla perché si è procurata un aborto clandestino con un kit di farmaci, acquistato in rete alla modica cifra di 50 euro, facendole pagare un’ammenda che va dai 5.000 ai 10.000 euro, sta significare che la si vuole colpire due volte. Perché non ha interrotto la gravidanza in un presidio sanitario pubblico o convenzionato ed alle condizioni previste dalla legge 194, e perché è sua la colpa di essere stata costretta a farlo in clandestinità.
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