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Dentro e fuori i confini<br>

Dentro e fuori i confini

Iran
- Un incontro con Effat Mahbaz, scrittrice e attivista dei diritti delle donne

Silvia Vaccaro Domenica, 23/05/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2010

L’Iran è un paese spesso al centro delle cronache internazionali, soprattutto dopo le contestatissime elezioni del giugno 2009, il cui esito, ovvero la conferma come Presidente di Mahmud Ahmadinejad, hanno scatenato una dura protesta da parte di migliaia di iraniani, convinti che ci fossero state irregolarità e brogli e che la rielezione del leader del partito conservatore non fosse dunque legittima. All’indomani delle elezioni è nato il movimento verde, una sollevazione popolare a cui hanno aderito iraniani di ogni classe sociale per protestare contro l’esito del voto e più in generale contro il regime conservatore, colpevole di non riconoscere le differenze interne al paese e di perpetrare violenze contro i dissidenti. Molti intellettuali iraniani hanno aderito alle proteste, anche quelli che per ragioni varie vivono ormai lontano dalla Repubblica Islamica. Ho avuto il piacere e l’onore di incontrare a Roma Effat Mahbaz, scrittrice e attivista dei diritti delle donne, attualmente residente a Londra. Da studentessa, Effat partecipò alla Rivoluzione del ’79. Nelle epurazioni che seguirono la rivoluzione culturale dell’Ottanta, finì nel carcere di Evin, insieme al fratello. Quest’ultimo e il marito della scrittrice vennero condannati a morte e giustiziati per la loro azione di protesta per reati politici. Dopo sette anni di prigionia la scrittrice cercò di riprendere gli studi e, due anni e mezzo dopo, partì per la Germania, dove riuscì a specializzarsi in storia del femminismo all’Università di Dortmund. Effat è una donna coraggiosa ed estremamente vitale, anche se la profondità del suo sguardo lascia per un attimo intravedere il carico estremo delle violenze subite durante i lunghi anni di prigionia. Le ho subito chiesto delle sue connazionali, della visione che lei ha di loro, adesso che vive lontano, in un paese occidentale. La prima domanda è volutamente provocatoria perché ho deciso di chiederle cosa pensa delle donne che votano e sostengono Ahmadinejad, di quelle che non sentono dentro la fiamma del cambiamento. “Io queste donne le capisco. Non hanno la benché minima coscienza di quello che succede in Iran perché non sanno cosa c’è fuori dai nostri confini. Credono ancora in Ahmadinejad perché lui ha comprato la loro fiducia. Mi riferisco alle tante famiglie povere dell’Iran: da loro lui è riuscito a farsi amare donando un sacco di patate che, se a noi sembra niente, per alcune famiglie è vitale. Vero è anche che le donne hanno troppa paura: vedono in giro molta polizia e temono che, se fanno sentire la loro voce, gli verrà portato via quello che hanno. Io ho fiducia nel fatto che prima o poi tutti prenderanno coscienza della situazione e che la lotta delle donne iraniane contro le discriminazioni enormi che sono ancora costrette a subire porterà a dei risultati.” Abbiamo continuato l’intervista parlando delle donne iraniane 'emancipate' che però faticano ad essere realmente libere. “La nostra cultura tradizionale e l’uso fanatico dei principi religiosi musulmani fanno sì che la donna si trovi in una posizione di inferiorità rispetto agli uomini, a cominciare dai suoi familiari maschi, anche se ha raggiunto un livello di istruzione più alto. La tradizione è un macigno che pesa sulla testa delle donne.” Le ho chiesto poi della tanto discussa questione del velo, tema quanto mai ricorrente quando si parla di e/o con donne musulmane. A riguardo Effat Mabhaz ha paragonato il velo delle donne iraniane al tacco a spillo delle donne occidentali, ovvero “una scelta volontaria ma plagiata da quello che la società a cui appartieni ti chiede per sentirti parte integrante; si finisce in entrambi i casi a seguire dei dettami esterni spacciandoli per scelte personali e libere.” In ultima battuta le ho chiesto la sua opinione sul’operato dell’Occidente nei confronti della politica e del popolo iraniano. Mi ha risposto ribadendo la sua gratitudine a quanti in occidente, per esempio Amnesty International, si spendono per evitare esecuzioni capitali e per spingere i governi a liberare i prigionieri evitando anche molti suicidi per disperazione. Secondo Effat “la strada più giusta da seguire per aiutare il popolo iraniano è attraverso la mediazione politica, non facendosi intimidire dalle minacce di Ahmadinejad. Lui insiste volutamente sull’armamento nucleare dell’Iran e svia l’attenzione dei media, occidentali e non, da questioni più urgenti come le discriminazioni e le violazioni dei diritti umani, delle donne in particolare.” Salutandoci calorosamente, non si può non sperare che un numero sempre maggiore di donne iraniane possa trovare strade personali di emancipazione come quella trovata da Effat Mahbaz, sperando che non debbano passare necessariamente da un dolore così intenso come la perdita dei propri cari e della libertà.



(24 maggio 2010)

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