Mondo/ Intervista a Nuccio Iovene - La missione italiana in Darfur per arginare una crisi umanitaria senza precedenti
Conti Viola Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2005
Le regione occidentale del Sudan, il Darfur, è da tre anni scenario di guerra, crimini e violenza. L’Onu parla di una crisi umanitaria senza precedenti ed i dati, la più grande al mondo che per adesso non vede speranze di risoluzione. Il processo di pacificazione è ancora lontano e lo stesso governo sudanese non è disposto a far conoscere la verità. Gli osservatori internazionali parlano di almeno due milioni e mezzo di sfollati, di 70.000 morti per fame e malattie, 200.000 vittime della guerra civile. La cronaca degli ultimi mesi è ancora più allarmante: l’arresto di due operatori umanitari di Médicins sans Frontières, Paul Foreman e Vincent Hoedt, responsabili dell’organizzazione nel paese, per crimini contro lo stato, per aver pubblicato un’inchiesta sullo stupro di almeno 200 donne di origine africana da parte dei miliziani arabi filogovernativi, evidenzia la posizione di chiusura del governo contrario ad ogni tipo di interferenza da parte degli organismi internazionali. La recente missione italiana in Darfur, promossa dalla Commissione straordinaria per la tutela e la Promozione dei diritti Umani del Senato, è stata l’occasione per fare il punto sulle strategie di aiuto nella regione dominata da un clima di terrore e di instabilità. Il nostro Paese, infatti, si è impegnato concretamente per la soluzione del conflitto tra Nord e sud del Paese e, attraverso iniziative umanitarie, ha devoluto risorse economiche volte alla costruzione di pozzi ed acquedotti per l’approvvigionamento della popolazione, alla gestione dei campi degli sfollati e al sostentamento dei civili attraverso l’invio di derrate alimentari. La presenza di Barbara Contini, inviato speciale del nostro Governo in Darfur, coordinatrice di tutte le ong italiane presenti e portavoce della Cooperazione Italiana allo sviluppo, è il segno evidente dell’impegno e della volontà dell’Italia di promuovere iniziative tali da far fronte alle emergenze nella zona.Il Ministero degli Esteri ha stanziato 10 milioni di euro per il Darfur, aggiungendo un ulteriore contributo di 650.000 euro a sostegno dell’Unione Africana, formata dai principali esponenti politici dello continente africano, che promuove il processo di pacificazione. C’è però ancora molto da fare e la strada è sempre in salita. Il senatore Nuccio Novene capogruppo DS nella Commissione straordinaria per la Tutela e la Promozione dei Diritti Umani del Senato ha fatto parte della missione in Darfur nel giugno scorso ha dato chiara testimonianza della precaria situazione in cui vivono la popolazione locale e gli operatori internazionali.
Senatore Novene, qual è la situazione in Darfur?
Il Darfur è uno dei tre stati che compongono la Repubblica Federale del Sudan, paese che è otto volte l’Italia con 48 milioni di abitanti che vive per lo più di pastorizia e agricoltura. E’ suddiviso anch’esso in 3 regioni: settentrionale, occidentale e meridionale costituite da diverse etnie, con propria lingua e religione. Nello stesso Darfur vivono 6 milioni di abitanti di cui oltre un terzo è stato coinvolto nel più spaventoso genocidio africano. Il conflitto è cominciato nel febbraio 2003, quando si sono costituiti due gruppi ribelli, a base etnica africana e religione animista, contro il governo di Khartoum: il Sudan Liberation Movement Army (SPLA) e il Justice and Equality Movement (JEM). Obiettivo dei ribelli, quello di contrapporsi agli attacchi dei “Janjaweed”, i cosiddetti “diavoli a cavallo”, nomadi di origine araba e di religione islamica che compiono razzie nei villaggi, uccidono e stuprano donne e bambini e che sono appoggiati e probabilmente armati dalle milizie governative e dalla polizia filo-arabe. La guerra civile ha prodotto la più grave crisi umanitaria, caratterizzata da gravi violazioni dei diritti umani come le violenze sui civili e la distruzione di interi villaggi di etnia africana. I numeri parlano chiaro: 1,6 milioni sono gli sfollati nel Paese e 200.000 i profughi rifugiati in Ciad, paese al confine. I 2/3 delle popolazioni colpite sono donne e bambini esposti al pericolo di malattie, abusi e violenze. Nonostante l’8 aprile scorso sia stato firmato il cessate il fuoco da parte delle due coalizioni ribelli, mediante due accordi, alla presenza del segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, il conflitto nel Darfur prosegue e il Sudan non vede tregua nella ventennale guerra civile tra Nord e Sud del paese.
Che scopo ha avuto la missione italiana del giugno scorso?
Ha avuto quello di verificare l’attuale stato delle iniziative in corso atte ad aiutare la popolazione locale e a promuovere lo sviluppo. Inoltre, è stata l’occasione per avviare accordi bilaterali con il governo tesi all’avvio di progetti per garantire la sicurezza nei villaggi, l’approvvigionamento di acqua e di cibo e garantire l’assistenza sanitarie di base e le condizioni igieniche indispensabili per combattere le epidemie e le malattie.
Che risultati si sono ottenuti?
Uno importantissimo, innanzitutto, riguarda l’apertura del primo procedimento penale, a danno di 51 militari filogovernativi, accusati di crimini di guerra dinnanzi alla Corte penale internazionale dell’Aja, grazie al rapporto fornito dalla commissione d’inchiesta Onu guidata dal professor Antonio Cassese. La decisione, osteggiata dagli Stati Uniti, è stata presa dopo la denuncia per taglieggiamenti, stupri, devastazioni, uccisioni di massa ad opera delle bande paramilitari dei Janjaweed contro le popolazioni tribali nere già piagate da anni di desertificazione delle loro regioni. Questo primo caso di intervento del Tribunale dell’Aja apre la strada alla giustizia, mediante la tutela dei diritti umani e la condanna dei colpevoli degli stermini di massa che usano lo stupro come arma per diffondere terrore e vergogna nella società civile. Altri risultati ottenuti grazie all’intervento italiano, sono quello di aver realizzato progetti quali la costituzione dell’Avamposto 55 con la creazione di un ospedale pediatrico e di una scuola con infermeria alla periferia di Nyala; la ristrutturazione da parte del Cesvi dell’acquedotto di Ka; l’invio di generi di prima necessità e la creazione di campi di assistenza da parte delle varie ong italiane presenti in Darfur, come Intersos, Coopi, Cosv, Cesvi; l’assistenza del campo profughi di Garsila.
Le donne come possono essere tutelate?
Le donne ed i bambini, purtroppo, sono i soggetto più colpiti dalla guerra civile. Vivono nel terrore per le violenze che hanno subito ed hanno paura ad allontanarsi dai villaggi per procurarsi il cibo e di raccontare la loro terribile esperienza per vergogna. Inoltre, i fautori delle violenze sulle donne non sono solo i “diavoli a cavallo”, ma anche i soldati governativi che abusano di loro all’interno degli stessi campi di accoglienza. Per questo motivo, le donne hanno bisogno di assistenza e per loro devono essere organizzati centri ad hoc, per farle sentire protette e far loro riacquistare fiducia. La comunità internazionale su questo fronte è molto attiva. E’ necessario che si dia uno stop al circolo vizioso che vede la popolazione abbandonare i villaggi, sempre più insicuri, per affollarsi nei campi profughi alla ricerca di un luogo protetto, lasciando le proprie case e le coltivazioni a se stesse, senza poi trovar, una volta giunti, un’assistenza adeguata. Una tragedia nella tragedia.
La pace nel Paese è all’orizzonte?
E’ ancora prematuro parlare di pace, la firma della pace in Sudan, lo scorso 9 gennaio, tra il Governo centrale sudanese e i gruppi ribelli non è di per sé garanzia di una reale pacificazione. Non dimentichiamo che il Sudan è un paese ricco di giacimenti petroliferi, di risorse come l’uranio, che fanno gola a molti, non dobbiamo pensare che l’intervento internazionale sia basato solo su fini umanitari. La Cina, ad esempio ha grossi interessi nel Paese da quale importa il petrolio ed esporta manodopera e prodotti tecnologici. Anche gli Stati Uniti hanno forti interessi e ritengono il Sudan uno fra gli stati “canaglia”, sostenitore dell’integralismo islamico e presunto alleato di Osama Bin Laden. Le recenti trattative, avvenute in Nigeria del governo sudanese con l’Unione Africana per assicurare la pace nel Paese ed il monitoraggio da parte della comunità internazionale sul rispetto degli accordi e sull’accesso degli aiuti umanitari alla popolazione civile, trovano ancora molti ostacoli e vanno a rilento. Il Sudan non è un paese democratico, è un regime dove i diritti umani vengono calpestati ogni giorno. Dobbiamo continuare ad essere presenti in Darfur e in tutto il continente africano. Non dobbiamo pensare all’Africa come partner commerciale e, quindi, di minor rilevanza rispetto ad altre parti del mondo più “appetibili”. Nella maggior parte degli stati africani c’è l’emergenza di cibo, acqua, assistenza e noi non possiamo fare finta di niente.
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