Dalla ghigliottina a Rebibbia passando per il teatro
Detenute - La figura di Olympe de Gouge, liberamente tratta dal libro di Maria Rosa Cutrufelli, va in scena nel carcere romano di Rebibbia.
Bartolini Tiziana Sabato, 27/12/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2015
Dalla Rivoluzione francese al carcere romano di Rebibbia, sezione massima sicurezza, il passo non è breve: infatti è grande la distanza che separa la figura storica di Olympe de Gouge dalle detenute per reati riconducibili alla mafia o alla camorra. Ma il potere delle relazioni femminili riesce ad alimentare un vento che muove e avvicina ciò che appare distante nelle premesse e nel vissuto. Così è accaduto che attraverso NOIDONNE la scrittriceMaria Rosa Cutrufelli abbia incontrato le detenute e il progetto di Francesca Tricarico, ‘Le Donne del Muro Alto’ (www.ledonnedelmuroalto.it) e la relativa campagna di crowdfunding, finalizzato a portare il teatro in carcere “con il suo valore pedagogico e terapeutico quale potenziale agente di cambiamento”. Se la detenzione deve avere l’obiettivo del reinserimento, questa è una strada da percorre anche per i riscontri positivi ottenuti. Basti pensare ai riconoscimenti internazionali assegnati a ‘Cesare deve morire’, pellicola dei fratelli Taviani girata sempre a Rebibbia e alla quale Tricarico ha collaborato come assistente alla regia. Ad innescare le premesse dell’incontro sono le stesse detenute che per la loro seconda volta sul palcoscenico - nel 2013 hanno messo in scena “Didone, una storia sospesa” sempre con la regia di Francesca Tricarico - hanno scelto di ispirarsi a “La donna che visse per un sogno” (Frassinelli, 2008), libro in cui Cutrufelli racconta gli ultimi cinque mesi di vita di Olympe de Gouge, vissuti in carcere aspettando il processo che la condannerà alla ghigliottina nel novembre del 1793. Nelle belle pagine, dense e non scontate, si intrecciano eventi storici con la quotidianità affidandone la descrizione ad una galleria di figure femminili che agiscono intorno e insieme alla protagonista, eroina non sufficientemente valorizzata, che lotta e muore per la libertà e l’uguaglianza delle donne. Olympe contesta la deriva della Rivoluzione francese e scrive la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” difendendo con coerenza gli ideali repubblicani. Robespierre e il Terrore non la perdonano.
“Olympe è stata una grande che ha dato la vita per i diritti di noi tutti e soprattutto per le donne. La sua è una storia importante e la vogliamo donare al pubblico che verrà a vederci”. Lampi di orgoglio negli occhi di alcune detenute presenti all’incontro che NOIDONNE ha organizzato a Rebibbia lo scorso 13 novembre, ulteriori considerazioni da parte di altre: “come tante di noi è madre, come noi conosce il carcere e ne descrive le sofferenze, rimaste ancora oggi le stesse di due secoli fa”. Il partire da sé contraddistingue il femminile e la piccola stanza attigua alla biblioteca dell’istituto di pena in cui siamo in circolo accoglie altro ancora. “Grazie allo stimolo del teatro hanno conosciuto e studiato quegli eventi storici e sono state colpite dal fatto che una donna ha avuto il coraggio di sfidare il potere e di morire per la libertà degli altri, per il bene della comunità, senza un tornaconto personale” sottolinea Francesca Tricarico. In questo modo il punto di osservazione si sposta, modificando forse lo sguardo e la visuale. Olympe non ottiene nulla per sé, anzi perde la vita, ma è spinta dal suo immenso desiderio di libertà. La stessa molla che muove le detenute nell’interpretare i personaggi: “il teatro è evasione, è dono agli altri, ai miei familiari, di qualcosa di bello e importante”.
Il racconto della loro precedente esperienza teatrale è fortissimo: “in scena interpretavo la sorella Didone e mi disperavo per la sua morte, vedevo mia figlia piccola seduta in prima fila che piangeva; l’ho dovuta calmare, dopo, cercando di spiegarle che era una finzione”. Fanno eco le altre: “il giorno dopo ci sentivamo svuotate, stese sui letti senza la forza di alzarci e riprendere le consuete attività del carcere”. Ben più di un’emozione, più di “un sogno che ti dà vita”, la recitazione “ti porta dove vorresti andare e dove non avevi mai pensato di poter arrivare” osserva qualcuna. Tricarico aggiunge “è un ponte tra esterno ed interno, tra il carcere e la società, ma è anche lavoro su se stesse e lavoro di gruppo”. Nello spettacolo in preparazione ogni detenuta interpreta uno o più personaggi ispirati alle donne che parlano di Olympe, ma il riserbo è assoluto per non svelare la tessitura. Vagamente, preannunciano: “nessuna di noi è Olympe, lei non è fisicamente in scena, ma c’è sempre, tutte le altre sono anche lei…”. Cutrufelli comprende il senso della scelta perché “l’esperienza di Olympe è universale, con la sua irriducibilità e resistenza”. I cenni rapidi tra le presenti, le battute e i rimandi ci restituiscono una sensazione netta: l’interpretazione di un personaggio è anche una prova di sé in una dimensione altra. Il mostrarsi ai familiari su un palcoscenico, con un protagonismo che non ammette fraintendimenti, ti rende disponibile a tante possibili estensioni di sé. Libere. La libertà, la voglia di libertà è probabilmente la parola chiave che accomuna queste donne, lontane nel tempo e nei percorsi di vita, che è libertà negata a ciascuna per diverse ragioni.
Poi la forza delle parole, quando le si sceglie una ad una. “Il teatro, recitare, mi consente di evadere, di essere fuori con la mente anche se sono reclusa. Mi da una forza incredibile”. Stefy sul palcoscenico è talmente sicura che improvvisa: “la parte la so, ma sento una vocina dentro di me che dice dì questo, dì questo…”. E il poter deragliare è, di nuovo, un atto di libertà. Lo studio è anche un gesto di libertà. “Ho lavorato quattro anni alla stesura del libro leggendo i testi ufficiali, ma per descrivere i particolari della vita quotidiana (i bagni pubblici, il costo della vita, il caldo insopportabile o le giornate di pioggia) ho studiato i diari del tempo in cui tutto è annotato scrupolosamente. Così bisogna fare se vuoi che i personaggi siano reali e non pupazzi”. Un attimo di silenzio accoglie l’affermazione di Cutrufelli, c’è bisogno di una pausa per depositarla da qualche parte, nella testa e nel cuore. “Vedete quanto tempo richiede un lavoro ben fatto….” osserva Tricarico con un sottinteso riferimento ai tempi di elaborazione e della messa in scena. E la parola libertà si accredita nuovamente, sotto altre spoglie. La rappresentazione andrà in scena a marzo, nel teatro all’interno di Rebibbia, davanti ad un pubblico selezionato per ovvie ragioni. Il percorso è delineato, il lavoro è a buon punto, ma al momento l’incertezza riguarda la copertura delle spese. Infatti la Regione Lazio finanzia la metà dei costi e la raccolta fondi ha l’obiettivo di reperire i soldi necessari a completare il lavoro, che rischia altrimenti di fermarsi. NOIDONNE sostiene il progetto e i suoi obiettivi, sottoscritti anche dal Garante per i Diritti dei Detenuti del Lazio, sempre nella convinzione che per comprendere la complessità del mondo e delle donne che lo abitano occorre andare oltre la superficie, con il coraggio necessario a scoprire territori inesplorati che molto hanno da raccontare.
Lascia un Commento