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Dalla divisa al burqa è filo diretto

Dalla divisa al burqa è filo diretto

AFGHANISTAN - Un paese in bilico, il terrorismo, la forza delle donne e il contributo della missione italiana (e delle militari) per promuovere l’uguaglianza di genere. Nel rispetto della cultura d’origine

Raffaella Angelino Lunedi, 22/09/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2014

Herat. Sulla Highway One, la principale strada dell’Afghanistan, l’unica degna di questo nome, il traffico scorre lento. L’estate è caldissima e il vento, con il suo carico di sabbia, brucia la pelle e secca le labbra, tanto più durante il Ramadan. È facile incontrare famiglie intere che viaggiano su vecchie moto scassate o su auto stracariche, di masserizie, bambini, donne e animali. Capita spesso di vederli fermi a bordo strada, per un guasto, un incidente di percorso. Un uomo e una donna sono a terra, lei stringe tra le braccia un fagotto. A vederlo da vicino, dal tessuto fiorato sbucano un faccino e due manine. Alcuni militari italiani sono impegnati in una delicata operazione di messa in sicurezza di un tratto della “ring road”, come viene chiamata questa strada per la sua forma ad anello. Gli uomini del Genio della Brigata Sassari devono installare un dispositivo per contrastare quella che è la minaccia più subdola alla sicurezza in Afghanistan: gli “IED” (Improvised Explosive Device, NdR), ovvero i famigerati ordigni improvvisati, piazzati in punti vulnerabili. Siamo a una cinquantina di chilometri a sud di Herat, nel distretto di Adraskan. Alcuni degli italiani in divisa fermi sulla strada si avvicinano per verificare le condizioni dei tre caduti dalla moto. L’uomo, a terra, è ferito sul viso e alle gambe. È talmente magro da perdersi nei suoi abiti bianchi e nel copricapo. Si lascia assistere dal medico militare, nulla di grave. La donna, con il fagotto tra le braccia, si mette velocemente da parte, oltre i bordi della strada, nei campi aridi. Un velo scuro le copre la testa e il corpo, se lo tira sul viso e chiude ogni contatto con l’esterno. Dopo pochi minuti, si rimettono in piedi, la moto è un catorcio ma riparte. Si allontana nel caldo dell’estate afghana, lasciandosi a destra e sinistra campi incolti, di fronte il profilo dei monti e alle spalle piccoli villaggi venuti su a sabbia e fango, terra e sassi. Afghanistan 2014, qui il tempo sembra essersi fermato ad una data imprecisata. Mentre la colonna di mezzi militari si sposta sulla Highway one, la vita scorre lenta oltre i margini della carreggiata.

L’operazione militare di installazione del dispositivo di sicurezza chiamato “Culvert denial system” si prolunga. Il traffico è bloccato nelle due direzioni dalla polizia afghana. La situazione provoca il crearsi di capannelli di uomini, mentre alle donne velate è unicamente consentito di eclissarsi nei campi bruciati dal sole. Nonostante i progressi degli ultimi anni, la vulnerabilità della popolazione afghana, in particolare femminile, che vive nelle aree rurali resta elevata. Oltre al conflitto interno, i fattori che contribuiscono al protrarsi della crisi sono la scarsità di risorse e di infrastrutture, il clima, i disastri naturali combinati con un sistema politico in transizione perenne. Il 2014 rappresenta un anno di fondamentale importanza per la futura stabilità dell’Afghanistan. Con l’uscita di scena del presidente Karzai e la fine della missione internazionale Isaf-Nato, il Paese dovrà tirare le somme di un processo lungo oltre un decennio. Non aiuta lo stallo politico che si è creato all’indomani delle presidenziali di primavera che pure hanno fatto registrare un’alta e non scontata partecipazione al voto: oltre sette milioni di afghani alle urne rappresentano certamente la più alta sconfitta politica dell’insurrezione. Le prime a credere al cambiamento sono proprio le donne che sfidando divieti e minacce hanno partecipato al voto, anche se c’è una grande disomogeneità tra la realtà delle grandi città e quella dei numerosi villaggi rurali disseminati sul territorio. A Herat c’è un discreto attivismo: da alcuni anni si festeggia la festa delle donne; su 11mila studenti iscritti all’università di Herat, il 45% è rappresentato da ragazze. Herat è inoltre la città che vede a capo della Procura generale una donna, Maria Bashir, una donna che combatte ogni giorno criminalità e corruzione “senza nessuna pietà”. Dunque, agli sgoccioli della missione, mentre il futuro della presenza internazionale in Afghanistan è ancora incerto, anche a causa dello stallo politico interno, le donne segnano molti punti a favore anche grazie al lavoro appassionato di altre donne.

È il caso delle militari italiane che hanno lavorato con il resto del contingente nazionale in tutta l’area Ovest dell’Afghanistan. In particolare, il Provincial Reconstruction Team (Prt) di Herat a guida italiana (chiuso quest’anno) ha sostenuto numerosi progetti di cooperazione civile e militare tesi a migliorare la vita delle donne, collaborando con Ong e istituzioni locali, come il Dipartimento per gli Affari femminili della provincia di Herat. Ad avere a cuore (e nel cuore) le donne afghane è Laura Orani, Primo caporal maggiore, una giovane algherese di 33 anni alla sua terza missione in Afghanistan con la Brigata Sassari (la prima a Farah nel 2009, la seconda a Bala Boluk nel 2011 e l’ultima a Herat nel 2014), incontrata nella base italiana di Camp Arena. “È la terza volta tra queste montagne”, e mentre lo dice leggi l’entusiasmo negli occhi di chi sa di aver fatto la scelta giusta. Questa ragazza italiana, questa donna in divisa, a missione praticamente conclusa porta con sé in Italia “i sorrisi delle donne” e la soddisfazione di aver visto alcuni cambiamenti positivi nel corso degli anni. È fiera, Laura Orani, del supporto “discreto” che la missione italiana ha dato alle questioni di genere: “Abbiamo offerto un supporto senza voler disarticolare la loro cultura - racconta -. A livello militare, collaboriamo con le forze armate afghane anche per far conoscere l’uguaglianza di genere, sempre nel rispetto della cultura d’origine, ottenendo risultati significativi”. La fiducia che le donne hanno riposto in altre donne è il valore aggiunto della missione. “È una grande soddisfazione vedere crescere i progetti avviati grazie al supporto del nostro Prt, vedere le sinergie che si sono messe in moto nel Paese”. La speranza è che nulla venga disperso, che l’Afghanistan possa continuare a crescere, sia quello dei villaggi tra le montagne, sia quello delle città. Un’unica sfida, sotto lo stesso cielo, che qui ad Herat è più che mai pieno di stelle.

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