Lunedi, 02/09/2019 - Le parole costruiscono la realtà. È attraverso le parole che noi ci rappresentiamo il mondo. Ed è attraverso le parole della stampa che noi conosciamo il Paese e il mondo che ci circonda. Nonostante il manifesto di Venezia firmato nel 2017 da giornaliste e dei giornalisti “contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini” raccomandi di fornire un’informazione “attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni culturali, sociali, giuridiche”, continuiamo a ricevere da molta stampa una narrazione inappropriata e fuorviante dei femicidi, che finisce per offuscarne la gravità e per diminuire la responsabilità di chi l’ha compiuto.
Raptus, gesti di follia, atti compiuti da uomini malati, depressi, troppo innamorati, incapaci di accettare l’abbandono della “loro” donna. Se il femicidio fosse una malattia sarebbe davvero curiosa: ne soffrono gli uomini ma a morirne sono le donne. Ma attribuire questi omicidi alla malattia significa evitare di ragionare sulle radici culturali della violenza, o addirittura non voler ammettere che queste esistono. Sembra che la tendenza della stampa – e di conseguenza della maggioritaria opinione sociale che si forma su tale stampa – sia quella di considerare gli omicidi di queste donne come fatti inspiegabili, misteri oscuri, perché apparentemente non c’è ragione per cui un uomo sano di mente dovrebbe uccidere la propria compagna, la donna con cui ha dei figli, che amava, con cui ha condiviso la vita per anni. E allora, di fronte a questa incredulità, si attribuisce il comportamento dell’assassino all’amore o alla malattia, o alla combinazione delle due.
“L’ha uccisa per troppo amore”: ma quale prova migliore che quest’uomo non amava questa donna del fatto di averla uccisa? L’amore è per definizione un sentimento incompatibile con la violenza, l’amore ti porta a volere il bene dell’altro, la sua felicità. Che amore c’è nel massacrare una donna? Che amore c’è in un omicidio, che è l’atto di annientamento più assoluto dell’altro? Accostare nel discorso le parole “amore” e “omicidio” significa necessariamente creare un collegamento tra le due, collegamento che finisce per giustificare chi commette l’omicidio perché “ama troppo” o “ama da morire”.
Espressioni come “raptus di gelosia”, “pazzo di rabbia”, “folle omicida”, “perde la testa” costituiscono evidenti deresponsabilizzazioni, che escludono la premeditazione di un atto così grave da parte di assassini che raramente sembrano essere padroni delle proprie azioni, che vengono fatti apparire come pazzi, irosi, innamorati, dediti alla famiglia e con il timore di perdere la propria virilità.
Con l’espressione delitto passionale si torna a descrivere oggi ciò che trent’anni fa era il delitto d’onore. In molti giornali si legge che lui l’ha uccisa per gelosia o perché lei lo tradiva: ebbene dire questo significa dare la percezione che sia stato giusto ucciderla perché lo tradiva, che sia una risposta comprensibile e condivisibile quella dell’uomo, che viene disonorato, appunto, dall’illecito comportamento della “sua” donna. Ed era proprio a causa del tradimento di lei che il codice penale prevedeva una significativa riduzione di pena (quasi un’assoluzione) per l’uomo disonorato, per cui adesso parlare di delitto passionale non fa altro che assumere lo stesso punto di vista del vecchio codice: diminuire la responsabilità dell’uomo, assolverlo socialmente, a causa del comportamento della donna, che l’ha fatto sentire tradito e umiliato per aver perso il controllo su di lei.
Deresponsabilizzare il colpevole e colpevolizzare la vittima significa, in sintesi, scaricare la società da ogni responsabilità nei confronti di quanto accaduto, e relegare l’episodio ad una patologia isolata. Ma è proprio nella società che va ricercata la patologia; è proprio nelle radici culturali della società che si annidano il dominio maschile, il potere, la violenza.
Il Coordinamento dei centri antiviolenza dell’Emilia-Romagna ha pubblicato lo scorso 26 agosto un comunicato in merito al linguaggio utilizzato dalla stampa nei riguardi del femicidio di Cinzia Fusi, uccisa dal suo compagno a Copparo (FE). Riporto qui il comunicato:
Cinzia Fusi, 34 anni, è stata uccisa a Copparo, in provincia di Ferrara, dal suo compagno, Saverio Cervellati, 52 anni. Un altro femicidio in Emilia-Romagna, che purtroppo conferma il trend degli episodi di violenza maschile contro le donne in regione, il cui numero mantiene una certa costanza.
Sui giornali si succedono le solite espressioni di rito: “movente passionale”, “è stata la gelosia la causa scatenante”, e si parla di una “tragedia senza avvisaglie”.
Nonostante il sapere raccolto e diffuso in anni di studio del fenomeno della violenza sulle donne all’interno dei centri antiviolenza, di raccolta dei dati e di lavoro di accoglienza, il linguaggio dei media è ancora permeato da espressioni che veicolano una narrazione fuorviante del femicidio e del femminicidio.
Davvero si tratta di “tragedie del tutto inattese”? Di “raptus”, come vengono ancora definiti i femicidi? Se si osservano e si analizzano in un’ottica di genere, la nostra società e la nostra cultura sono ancora fortemente intrise di stereotipi di genere. Fino a quando le donne verranno rappresentate come oggetti a disposizione dello sguardo e del piacere maschile, fino a quando le relazioni possessive verranno romanticizzate, fino a quando per le donne non ci sarà una reale e concreta equità nel campo dei diritti e delle opportunità, la violenza maschile continuerà a imperversare e le donne continueranno a essere uccise dai loro compagni “per gelosia”.
Il Coordinamento dei centri antiviolenza dell’Emilia-Romagna sottolinea quindi la necessità di inquadrare episodi come quello nel Ferrarese per quello che sono: manifestazioni della grave asimmetria che ancora contraddistingue il rapporto fra i generi e moniti a intervenire più fattivamente per prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne.
Non è la “gelosia” a innescare la violenza, ma la convinzione, da parte di uomini di ogni età, appartenenza culturale e classe sociale, che le donne siano oggetti di proprietà, che servono per soddisfare le proprie aspettative, e non persone che hanno il diritto di agire e decidere autonomamente per le loro vite.
Il lavoro da fare nel nostro Paese è tanto; per questo è necessario che la violenza sulle donne diventi una priorità anche a livello politico, che nel prossimo Governo la delega alle Pari Opportunità venga affidata a una persona esperta di diritti delle donne e che il dialogo tra istituzioni e centri antiviolenza sia continuo e proficuo.
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