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Dal Chiapas a Roma. Alleanze femministe intersezionali

Dal Chiapas a Roma. Alleanze femministe intersezionali

Congresso femminista nel Ciapas, mentre a Roma scorre la manifestazione NONUNADIMENO

Martedi, 29/11/2016 - Avevo pensato di scrivere un articolo a modo, non dico accademico, ma qualcosa di asciutto che raccontasse gli accadimenti e riportasse le riflessioni altrui, così per far avere alla Casa delle donne e alla rete dei Centri Antiviolenza Di.Re un respiro intercontinentale.

Questo pensiero, poi, mi son resa conto che non aveva davvero nulla a che fare con me e con questi giorni in Chiapas, Mexico. Perché nel mio peregrinare mi sono casualmente imbattuta nel Primer congreso feminista de Chiapas www.facebook.com/Primer-Congreso-Feminista-de-Chiapas-2016 e, quello sì, ha avuto a che fare con me, radicalmente. Perciò, desiderosa di attuare la pratica femminista della partecipazione, è da me che ho deciso di partire per scrivere, condividere.

Sono Martina, 32enne italiana, operatrice e socia della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna. Dal primo novembre gironzolo per il Messico cercando di coniugare il piacere del vagabondare assieme a quello dell’incontro con realtà politicamente attive nel Paese. Arrivare a San Cristóbal de las Casas il 20 novembre e scoprire che l’indomani avrebbe preso il via un evento di portata storica, ad impronta femminista per giunta, capirete che ha generato in me un certo entusiasmo. Mi sto infatti lasciando alle spalle, siamo al 25 novembre, guarda il caso, una 4 giorni di energie, saperi, paure, desideri e corpi a cui render merito sarà davvero difficile. L’evento è stato fortemente voluto da un gruppo di attiviste, avvocate, indigene, accademiche, femministe al fine di metter assieme 45 anni di movimenti e lotte portate avanti nello Stato del Chiapas per difendere e promuovere i diritti delle donne. Si è molto ribadita, ma soprattutto posta in essere, l’impronta inclusiva di ciascuna giornata. Ines Castro Apresa ha esordito dicendo: “Dobbiamo aprirci ad ogni genere possibile se vogliamo continuare ad esserci, se vogliamo che “la rivoluzione o sarà femminista o non sarà” non sia solo uno slogan vuoto”. A questa affermazione si sono attivate in me una serie di connessioni con varie riflessioni riguardanti la stessa urgenza percepita in Italia. Molteplici, infatti, sono state le istanze contenute in ciascun tavolo tematico proposto che potremmo dire estremamente vicine alla situazione italiana. Il mondo, oltre ad essere piccolo, esercita ovunque gli stessi sistemi di oppressione, controllo e violenza sistematica a danno delle donne e di tutte le alterità divergenti. Con diverse declinazioni materiali piú o meno evidenti, brutali e drammatiche, certo.

Molte alterità dissidenti, quindi, erano presenti ad ogni giornata, proprio allo scopo di recuperare la memoria storica del femminismo chiapaneco. Ciò per essere in grado di produrre una lettura del presente che sì tenga conto della sua estrema complessità, ma col fine ultimo di orientarsi verso una costruzione del futuro in cui riconnettersi col tessuto sociale e produrre proposte politiche di genere concrete e attuabili. E continuavo a chiedermi: non sono le stesse parole che ci siamo dette nei corridoi, in assemblee, pedalando assieme e riflettendo sulla nostra città, sul Paese e sul nostro ruolo al loro interno? La narrazione e l’approccio istituzionale alla tematica di genere e maltrattamento, ad esempio, quanto ci interroga? In Chiapas, dopo 3 anni, sono riuscite ad ottenere la cosiddetta Alerta de genero. Si tratta di una risposta governativa alla sollecitazione da parte di organizzazioni e movimenti impegnati sul campo e contenuta nella riforma del 2013, facente capo alla Legge finalizzata a garantire alle donne una vita libera dalla violenza (Reglamento de la Ley General de Acceso de las Mujeres a una Vida Libre de Violencia Ley de Acceso www.conavim.gob.mx/en/CONAVIM/Informes_y_convocatorias_de_AVGM). Peccato che le stesse promotrici dell’Alerta la ritengano discriminatoria perché la politica, sostanzialmente, riduce la questione violenza a un fatto privato e mette in campo discorsi demagogici che fungono, forse, da palliativo, ma, di certo, non agiscono sulle cause strutturali della violenza stessa. Le donne al congresso hanno sottolineato che non si tratta di un problema femminile, ma riguarda una cultura intrisa di patriarcato, disumanità e logiche colonialiste. La risposta dei movimenti del Chiapas sarà quindi la formulazione di una nuova domanda e, ancora nell’attesa di poter davvero influenzare lo Stato, saranno sempre i gruppi di donne e trans a cercare di proporre soluzioni effettive nell’immediato. Perché, e quanta emozione nel riconoscermi nelle parole di una voce storica come quella di Mercedes Oliveira Bustamante, il femminismo è un processo in costante auto, ed etero aggiungerei, formazione, ma soprattutto è un movimento metabletico, che deve generare cambiamento sia nelle forme di pensiero, sia nella quotidianità di ciascun@. Il femminismo è una forma di essere, di viversi, tutt@, in ciascuna delle relazioni che agiamo quotidianamente.

Mi ha piacevolmente stupita la volontà reale delle frange storiche di aprirsi al nuovo, che tanto nuovo si è rivelato non essere. La vera novità è la reale pratica partecipativa e quindi inclusiva. Questo non banalizzando le diverse ubicazioni di ciascun@. L’urgenza all’inclusione deriva da un’evidenza che è quella estrema del femminicidio e del transfemminicidio. “Non ci sono alternative, ci stanno ammazzando, ci fanno scomparire”. Rocio De La Rosa lo ha descritto perfettamente: si tratta di crimini d’odio, della becera negazione e rimozione di uno dei diritti fondanti di ciascuna persona umana, quello alla propria identità, qualunque essa sia”. La cornice della questione della violenza, allora, si conferma essere quella della giustizia sociale, all’interno della quale le categorie, non solo analitiche, ma anche esperienziali, di genere e uguaglianza, e tante altre ancora, si collocano in tutta la loro liquidità.

Sono dovuta arrivare in Mexico per darmi nuove appartenenze, nuove parole per dirmi e raccontarmi me stessa e la realtà in cui sono immersa. Quella sensazione potente e bellissima, di spaesamento e riposizionamento critico e consapevole, che anni fa mi aveva generato l’incontro con la Casa delle donne di Bologna io, grazie e assieme ad altr@, in Chiapas l’ho rigenerata. Ho continuato a scegliermi e scoprirmi femminista. Ho confermato, però, anche l’urgenza di includere una prospettiva intersezionale nel mio farmi e disfarmi come donna e femminista e operatrice di un Centro Antiviolenza e come tutte le altre Martina che mi popolano. Credo sia imprescindibile considerare interconnesse la razza, la classe, il genere, l’affettività, la religione. Lo diceva anche Angela Davis ed era in buona compagnia, ma la mia scoperta dell’acqua calda ora ha preso il sapore dell’illuminazione, abbiate pazienza. Non credo ci siano molte altre strade percorribili se non quelle derivanti dalla prospettiva antisistemica e, in quanto tale, decoloniale e intersezionale. Avevo paura di sembrare ideologica utilizzando certi termini. C’è in effetti il rischio di passare per anacronistica ecc, ecc. Però chiamare le cose col proprio nome credo possa generare l’effetto “tana libera tutt@”. Quindi sì, per me è stato importante nominare i vari dispositivi di controllo e dominio che ci opprimono: l'eteropatriarcato, il razzismo, il binarismo biologico per citarne solo alcuni. Ho quindi trovato possibilità narrative e identitarie nuove e vere nel femminismo indigeno, nel femminismo ecologico, nel femminismo afro e nel transfemminismo. Movimenti questi ultimi migranti, sia in senso territoriale, sia identitario. E mi sono definita una donna, privilegiata, europea, bianca, eterosessuale, almeno per quel che mi è dato sapere di me ad oggi. L’opportunità liberatoria rappresentata dall’intersessualità afroamericana, le infinite sfumature che si sono sommate nell’ascoltare corpi di donne indigene espropriate da se stesse perché territorio di conquista e per questo ancora in lotta, l'invisibilizzazione delle afrodiscendenti che reclamano uno spazio nella storia e nella costituzione messicana per riconnettersi con le proprie origini e collettivizzare possibilità rappresentative e narrative al di là degli stereotipi, la decostruzione creativa delle persone trans. Tutto questo mi ha fatto sentire parte di qualcosa, mi ha raccontato molto di me, della mia identità che si disapprende e poi si ricrea, o almeno ci prova. Lo ha detto Daniel B. Coleman con quella tenerezza radicale (ternura radical) che contraddistingue la sua infinita persona: “Ci rimettiamo al mondo facendo di noi stess@ il nostro nuovo utero. Esercitando quella sovranità corporale che ribadisce la nostra unica appartenenza, quella ad una corporeità mai fatta e finita. A ciascuna vita sarà riconosciuto il proprio valore solo quando sarà riconosciuto valore alle vite delle persone negre e trans”.

Di certo non è riducibile a facili pacificazioni un’esperienza del genere, né collettivamente, né personalmente. Vanno assunte tutte le complessità di cui ciascuna istanza di giustizia sociale si fa portatrice. Le sfumature, quando radicalizzate, sembrano però ancora più belle. Il principio inclusivo e intersezionale delle lotte forse potrebbe essere praticabile se ci riconoscessimo davvero nelle parole di Logbona Olokunee: “Non dobbiamo necessariamente essere uguali o unit@. Dobbiamo essere alleat@”.

E ho continuato a pensare a me, alla Casa delle donne, ai vari spazi sociali e popolari in cui transito, alle relazioni che tesso. Mi sento rigenerata, anche se resto senza risposte definitive. Di certo ho parole nuove con cui nominare, almeno, le domande. Roma avrebbe potuto essere il posto ideale per collettivizzarle, ma sono certa che, nella valenza storica di queste giornate capitoline, molti dei miei interrogativi siano già contenuti e molti altri ancora animeranno tavoli e dibattiti che orienteranno il nostro futuro da alleat@.



di Martina Ciccioli

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