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Dagli stupri di massa alla rinascita collettiva. Un cammino al femminile

Dagli stupri di massa alla rinascita collettiva. Un cammino al femminile

Africa /Rwanda - Dopo il genocidio del 1994 le donne hanno fatto della solidarietà un elemento cardine della loro pratica politica. Oggi sono più della metà in Parlamento e guidano i più importanti ministeri

Varani Nicoletta Lunedi, 16/04/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2012

Sintesi di un genocidio: un milione di vittime, due milioni di persone in fuga (che hanno vissuto per anni nei campi profughi tra grandi sofferenze), trecentomila orfani, almeno mezzo milione di donne violentate e traumatizzate. Nel 1994 in soli cento giorni il Paese delle mille colline, poco più grande di una regione italiana, è stato raso al suolo, le infrastrutture e migliaia di case sono state distrutte. Il massacro del Ruanda, definito dalle Nazioni Unite come “genocidio dei Tutsi e degli Hutu moderati”, è il risultato dell’esasperazione e di un’ ideologia razzista che affonda le radici nel colonialismo, quando una popolazione che da secoli parlava la stessa lingua e condivideva la stessa cultura è stata spinta dai nuovi arrivati a esasperare le proprie differenze etniche. La comunità internazionale, pur avendo a disposizione molti indicatori che lasciavano presagire la strage, non è intervenuta e come noto anche l’ONU si è dimostrata impotente e inefficace.

Nel memorial di Gisozi, alla periferia della capitale, un pannello ricorda che nel 1994 “le Ruanda était mort”.

Fu il genocidio delle comunità, la distruzione totale di un Paese dove le donne furono le principali vittime. Considerate “bottino di guerra”, a esse venne praticato lo stupro di massa. Molte furono uccise, altre costrette a partorire un figlio “non Tutsi”. Nei vari rapporti delle Nazioni Unite emerge che durante il genocidio almeno 250mila ruandesi furono sistematicamente stuprate. Le violenze, per lo più compiute da molti uomini in successione, furono spesso accompagnate da forme di tortura fisica ed eseguite pubblicamente per moltiplicare il terrore e la degradazione. Spesso gli stupri erano preludio di morte, ma a volte le vittime non venivano uccise perché l’umiliazione avrebbe colpito non solo la vittima ma anche le persone a lei più vicine. Ciò incrementò esponenzialmente la diffusione dell’AIDS nel Paese. Durante il periodo del genocidio, il governo reclutò negli ospedali, tra i malati di AIDS, veri e propri battaglioni di stupratori con l’ intento di diffondere sistematicamente la malattia.

Al termine di questo massacro le organizzazioni internazionali fecero un censimento di massima e l’ONU dichiarò ufficialmente che il 70% della popolazione era di sesso femminile, donne per la maggioranza vedove. Gli uomini erano morti in guerra, imprigionati, fuggiti. Tuttavia, a seguito del genocidio, nel Paese sono nate molte associazioni e reti di sostegno alle donne, che offrono un contributo determinante allo svolgimento dei tribunali Gacaca. Le donne, che costituiscono ancora oggi la maggioranza della popolazione, esercitano un ruolo vitale nella ricostruzione fisica e morale del Paese, nonché nel processo di riconciliazione nazionale. Vittime della disuguaglianza di genere a causa della struttura patriarcale su cui poggia l’assetto sociale e comunitario, che continua a favorire gli uomini in termini di accesso e controllo delle risorse, le donne ruandesi hanno una speranza di vita inferiore agli uomini, sono meno istruite, hanno maggiori probabilità di contrarre l’AIDS e sono la forza lavoro meno retribuita, malgrado il 30% delle famiglie ruandesi abbia a capo una donna. Migliaia di donne rimaste vedove, malate, indigenti si sono organizzate in piccoli gruppi e associazioni. Hanno avviato progetti per far fronte a problemi e necessità del dopoguerra e si sono riunite per offrire sostegno immediato ai molti bambini orfani e malati, divenendo per loro delle nuove mamme. Dopo il genocidio si contavano circa 40mila orfani, oggi gli orfanotrofi sono chiusi. Le donne hanno fatto della solidarietà un elemento cardine della loro pratica politica.

Le ruandesi cominciarono la ricostruzione della vita materiale del Paese e contemporaneamente quella costituzionale contribuendo a far cancellare e approvare nuove leggi. In tale prospettiva hanno ottenuto la modifica del codice di famiglia con il riconoscimento del diritto all’eredità, che permette loro di diventare proprietarie dei beni familiari, tra i quali la terra, nel caso di morte del marito. Inoltre, hanno ottenuto che la Costituzione contenga il dettato che in tutte le istituzioni pubbliche e private sia presente almeno il 30% di donne. Attualmente il parlamento ruandese conta ben il 56% di presenza femminile e la condizione socio sanitaria del Paese sta lentamente migliorando. In pochi anni i sieropositivi sono passati dal 13% al 3% della popolazione, la malaria dal 9% al 3% delle cause di morte, la scolarizzazione è salita dal 74% all’ 86% dei bambini. Merito delle donne? “Se non si fosse puntato su di noi, dopo il genocidio il Paese si sarebbe semplicemente fermato” afferma Oda Gasinzigwa, da un paio di mesi Chief Gender Monitor, ovvero il “segugio” governativo incaricato di rilevare ogni traccia di discriminazione di genere. La pensa così anche Aisa Kirabo Kacyira, che era veterinaria, è stata parlamentare e ora è sindaco di Kigali, capitale africana tanto ordinata da deludere ogni velleità d’avventura: “La famiglia è una società e le madri sono leader per definizione. Il merito della nostra dirigenza politica è stato di darci l’opportunità di dimostrarlo”. Abbattere gli steccati tra Tutsi e Hutu, sciogliere le disparità tra uomo e donna: la seconda vita del Ruanda scampato alla morte riparte da qui. Alla domanda: è stato più difficile abbattere pregiudizi di etnia o diffidenze di genere? risponde Rose Mukantabana, presidente del Parlamento ruandese: “Le donne erano sottomesse da sempre, l’odio etnico è stata un’invenzione di colonialisti e criminali. A Hutu o Tutsi la nostra cultura non ha mai dedicato proverbi cattivi” (Oriani, 2009).

Dalla fine del massacro, che Yolande Mukagasana definisce un genocidio “pianificato, studiato e praticamente totale” perpetrato contro i Tutsi, fino ad oggi sono sorte varie organizzazioni gestite da donne che hanno offerto aiuto concreto e assistenza psicologica alla popolazione. Tra le più attive figurano Sevota, associazione fondata da Godelieve Mukasarasi , attivista dei diritti umani il cui lavoro ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti ed elogi in vari Stati, inclusa l’Italia, e Pro-femmes, voluta da Suzanne Ruboneka, che si occupa della promozione della giustizia sociale, dell’educazione, dei diritti delle donne e dei bambini.

La Mukasarasi, toccata in prima persona subito dopo il genocidio, quando miliziani, in un agguato, hanno assassinato suo marito e sua figlia, mentre si stava recando a testimoniare in un processo post-genocidio, ha reagito organizzandosi con altre donne, vittime di ingiustizie, sopravvissute agli eccidi, e ha creato Sevota (Solidarietà per la crescita e lo sviluppo delle vedove e degli orfani).

I progetti portati avanti in questi anni hanno permesso di proteggere da attacchi o intimidazioni mogli, madri e figlie nel corso dei processi avviati per ottenere giustizia e per gettare le basi di una riconciliazione nazionale, come pure hanno aiutato centinaia di donne, vittime di stupri etnici, ad accedere a cure mediche importanti, inclusi specifici trattamenti contro l’AIDS. L’associazione si occupa anche degli orfani, ossia di bambini che hanno perso tutto il loro nucleo familiare.

L’UNICEF ha stimato a oltre un milione gli orfani in Ruanda a seguito del genocidio e degli effetti che esso ha provocato, come la diffusione dell’AIDS. Per affrontare casi così delicati, l’associazione Sevota ha sostenuto terapie psicologiche appropriate e luoghi di accoglienza per ospitare i bambini.

Pro-Femmes Twese Hamwe (Per le donne tutti insieme) è un collettivo di circa 40 associazioni femminili ruandesi che lavorano per la promozione della donna, dello sviluppo e della pace. Suzanne Ruboneka, presidente dell’organizzazione, sostiene che hanno subito stupri e violenze le donne i cui mariti e parenti hanno ucciso e stuprato.

La mission dell’organizzazione è di ricreare unità fra Hutu e Tutsi, di ricostruire un clima di pacifica convivenza ma per attuarlo è necessario contrastare la povertà che affligge vedove, rifugiate, mogli di ex combattenti, oltre che offrire supporto psicologico per affrontare gravi traumi e favorire il dialogo e la partecipazione attiva delle donne.

Pro-Femmes porta avanti piani d’azione mirati per realizzare condizioni economiche, politiche, morali e giuridiche favorevoli alla creazione di una pace reale e duratura (Turrin, 2009).

Anche se in Ruanda un antico proverbio dice che la sventura si abbatte sulla casa dell’uomo che lascia l’ultima parola alla donna, proprio in Ruanda esiste l’unico parlamento al mondo a maggioranza femminile ed è presieduto da una donna, Rose Mukantabana, e alle ultime elezioni politiche le donne ruandesi hanno conquistato 45 seggi su 80.

Sono donne le ministre dell’Economia, degli Esteri, delle Infrastrutture, è una donna la presidente della Corte suprema, il sindaco di Kigali , la responsabile dell’Agenzia delle Entrate, il Capo della polizia. Oggi in Ruanda esiste una commissione di riconciliazione per la popolazione composta da 80 senatori e 52 di loro sono donne.

Hutu, Tutsi e Twa non esistono più, la carta d’identità etnica, introdotta dai belgi, è bandita e sui documenti c’è scritto: cittadino del Ruanda.

Il Ruanda oggi è un Paese vivo che sta sconfiggendo l’AIDS, la malaria, l’analfabetismo, e punta gli occhi al 2020 quando il presidente Paul Kagame - che governa il Paese imponendo il suo partito, la coesione sociale e la parità uomo/donna - ha promesso che la povertà sarà solo un ricordo.

Tutto ciò dimostra come le donne hanno saputo tramutare una terribile vicenda in una opportunità.



* Facoltà di Scienze della Formazione

Università degli Studi di Genova



Bibliografia e sitografia di riferimento



Varani N., “Rwanda:il futuro è donna” in Primi A., Varani N., La condizione della donna in Africa sub-sahariana. Riflessioni geografiche, Limena (PD), Libreriauniversitaria.it edizioni, 2011, pp. 252-256.

Mukagasana, Y., Kazinierakis, A. Le ferite del silenzio. Testimonianze sul genocidio del Rwanda, Molfetta (Ba), La Meridiana, 2008.

Oriani, R. “Ruanda dove comandano le donne” in Io Donna, 5 marzo 2009.

Scaglione, D. Rwanda. Istruzioni per un genocidio, Roma, Edizioni Infinito, 2010.

Stefanini, F. “Le giurisdizioni gacaca” in Politica domani, n. 66, 2007.

Turrin, S. “Il riscatto delle donne ruandesi” in Afriche, n. 3, 2009.

www.ogv.rw

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