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Custodi di terra, custodi di vita

Custodi di terra, custodi di vita

Africa - Landgrabbing: la “nuova” corsa alla terra che affama le donne africane

Antonelli Barbara Mercoledi, 19/09/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2012

Africa Le comunità rurali di donne nei Paesi in via di sviluppo, in particolare dell’Africa sub-Sahariana, costituiscono i gruppi socio-economici più vulnerabili: pur rappresentando la struttura portante dell’economia rurale, hanno un effettivo controllo su meno del 2% della terra, scarso accesso ai crediti agricoli, alla varietà di sementi e alla formazione specializzata. Se quella poca, pochissima terra nelle loro mani diventa poi l’oggetto di un famelico desiderio di generare profitto, per loro sopravvivere diventa impossibile. Ormai sono sempre di più le organizzazioni internazionali, le ONG, i movimenti sociali, le piattaforme di associazioni contadine che lanciano l’allarme, evidenziando come esista una dimensione di genere anche nel fenomeno del landgrabbing, cioè l’acquisizione di terreni agricoli su larga scala, nei Paesi poveri, da parte di aziende private, multinazionali, governi e singoli soggetti allo scopo di produrre cibo per l’export, per la produzione di biocarburanti o semplicemente per trarre profitto. A pagarne il prezzo sono le comunità contadine locali, in primis le donne, che già portano sulle spalle il doppio peso di generare reddito e “mandare avanti” la famiglia. Rimanere senza terra, significa per loro automaticamente non avere alcun futuro. Tra il 2000 e il 2010, circa 200 milioni di ettari di terreni agricoli sono stati oggetto di negoziati e di questi, circa 71 milioni sono stati acquisiti. L’Africa è il paese che paga il prezzo più alto, diventando la nuova frontiera della corsa alla terra: il 50% delle acquisizioni avviene qui, perché è qui che la terra costa meno, perché più deboli sono le istituzioni e perché - erroneamente - si crede che ci sia più ampia disponibilità di terra. Sono, infatti, i Paesi più poveri del continente africano, quelli meno integrati nei mercati internazionali e con alti tassi d’incidenza della fame, i principali obiettivi del landgrabbing. La Banca Mondiale parla di un “aumento esponenziale” di tali acquisizioni, in Africa, pari a 46,6 milioni di ettari di terra arabile. Una ricerca pubblicata dalla International Land Coalition evidenzia dati più preoccupanti: 134,5 milioni di ettari solo per il continente africano. Dopo anni di indifferenza, la terra - e di conseguenza la produzione agricola - è ridiventata un bene prezioso, scatenando una vera e propria corsa all’“accaparramento” che anziché rappresentare un’occasione di sviluppo e investimento per le comunità locali, si è trasformata in una nuova forma di sfruttamento coloniale. Una delle cause di questo rinnovato interesse è da ricercarsi nella crisi dei prezzi, dovuta in parte a fenomeni speculativi: dal 2006 i prezzi di quasi tutti i prodotti agricoli sono aumentati in modo consistente. Inoltre circa il 40% del totale delle terre acquisite ha come obiettivo la produzione di commodity agricole per biocarburanti: Stati Uniti e Unione europea sono i principali produttori e consumatori di biocarburanti e quindi protagonisti del landgrabbing. Le dinamiche e le implicazioni di genere sono state evidenziate da uno studio commissionato dalla ONG ActionAid che prende spunto dalla ricerca sul campo condotta dalla ricercatrice Nidhi Tandon in un rapporto rimasto inedito che analizza casi-studio in Malawi, Mozambico e Zambia. Sempre ActionAid ha mappato, in un altro studio, le aziende italiane attive nel landgrabbing: sarebbero 11 e il principale target anche in questo caso è l’Africa sub-Sahariana. In molti casi l’acquisizione di queste terre è finalizzata alla produzione di biocarburanti, in primo luogo jatropha e olio di palma. Le acquisizioni sono in realtà un vero e proprio furto: o perché gli accordi di compravendita non rispettano i diritti delle popolazioni locali o perché avvengono senza il consenso, senza alcuna consultazione con i legittimi proprietari o senza alcuna compensazione; in assenza di contratti trasparenti che specificano chiaramente gli impegni che vincolano le attività e la ripartizione dei benefici. Attori chiave sono investitori stranieri, ma in alcuni casi la terra è “svenduta” grazie al consenso e all’appoggio di élite e governi locali. I contratti di compravendita sono negoziati a porte chiuse tra gruppi di potere che raramente consultano chi quella terra la usa da decenni. Senza valutare gli impatti sociali, economici e ambientali compresi quelli di genere. Come può una donna del Ghana o del Mozambico, già normalmente esclusa dalle consultazioni sia formali sia informali riguardanti la compravendita di un terreno, competere con un investitore internazionale? Le donne contadine ricevono un decimo dei finanziamenti ottenuti dagli uomini, in alcuni casi vengono già ampiamente discriminate da leggi locali che ne limitano la proprietà, il controllo sulla terra e la gestione del reddito ricavato dal lavoro agricolo. I dati ufficiali fotografano una situazione preoccupante: in Tanzania per esempio solo l’1% delle donne possiede titoli di proprietà delle terre che lavora; una cifra che arriva al 29% nel caso dello Zimbabwe nonostante pochissime traggano realmente profitto dalla loro terra. Nelle società rurali tradizionali, dove sono in vigore ferree strutture patriarcali, la maggior parte delle donne acquisisce accesso alla terra attraverso una figura maschile (attraverso l’eredità del marito o del padre): la terra è alla base di queste economie informali e rappresenta una forma di sicurezza sociale per le donne e per le loro famiglie, oltre che un mezzo di sostentamento. Nell’Africa sub-Sahariana l’80% delle piccole aziende a conduzione familiare è gestita da donne; se la terra viene sottratta, sono le donne a pagare nuovamente un doppio prezzo: la perdita di un mezzo per sopravvivere e il peso di trovare un’alternativa per generare cibo per il nucleo familiare. Per molte di loro perdere la terra significa entrare nel circolo vizioso del lavoro al nero o sottopagato. E quindi essere vittime di nuove discriminazioni.



Foto di ActionAid

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