Intervista a Maria Ida Gaeta - la direttrice artistica del Festival delle Letterature di Roma ha vinto la sfida di coniugare la cultura con la divulgazione, riuscendo ad offrire uno svago intelligente. E gli spettatori confermano
Colla Elisabetta Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2008
Filosofa e docente universitaria, autrice di numerosi saggi di successo, Maria Ida Gaeta incarna la figura della “creativa” per eccellenza, nell’accezione più colta del termine, sempre alla ricerca del giusto equilibrio fra cultura umanistica alta ed appassionata abilità divulgativa. Nell’ambito della sua collaborazione ultraventennale con il Comune di Roma, dapprima nella riorganizzazione del Sistema Bibliotecario comunale di Roma, poi in qualità di responsabile della Programmazione culturale (di carattere letterario ed editoriale), ha attuato delle politiche culturali sempre attente alla valorizzazione dell’identità di genere. Dall'inizio del 2000 è direttrice della Casa delle Letterature, un centro cittadino dedicato alla letteratura italiana e straniera del ‘900 da lei stessa ideato e, dal 2002, è direttrice artistica del Festival delle Letterature. Ha conseguito due specializzazioni post-lauream in ricerca filosofica ed in informatica per le scienze umanistiche, ha curato programmi radiofonici per la RAI, stages di studio e lavoro in Europa e negli Stati Uniti ed organizzato Seminari sulla creatività femminile e sulle donne migranti; è inoltre curatrice di cataloghi e volumi di atti di convegni, relativi alle manifestazioni realizzate dal proprio servizio: ‘La biblioteca di Noè’ (Le Monnier), ‘C'era una volta il 1789’ (Palombi), ‘Multipli forti’ (Carte segrete), ‘Etnie a Roma’ (Laziografik), ‘Parola e immagine’ (Carte segrete), ‘In/forma di rivista’ (Carte segrete). Insomma una personalità dirompente e vulcanica, che si manifesta anche nell’intervista concessa a ‘noidonne’ con grande gentilezza e cordialità.
Come ha orientato il suo percorso professionale nel panorama delle attività culturali del Comune di Roma?
Ho sempre cercato di avere un approccio filosofico ai temi culturali e letterari, poiché ritengo che la letteratura oggi sia realmente la testimonianza delle nostre vite, e che gli scrittori siano i filosofi dei nostri tempi. Nel ’96, proposi a Borgna l’idea di una programmazione culturale della Capitale che non si limitasse ad ospitare spettacoli ma che avesse chiara l’impronta della cultura umanistica, dando spazio a Convegni, dibattiti, reading, insomma alle discipline umanistiche nel loro complesso. Non volevo però realizzare una programmazione “secchiona” ed è appunto questa la scommessa che ho fatto ed ho cercato di vincere: quella di coniugare la cultura scientifica con la divulgazione, in una parola offrendo uno svago intelligente al pubblico. Alla fine degli anni Novanta ho cominciato a battermi per aprire la Casa delle Letterature, un luogo dedicato al sapere umanistico: in questo senso ho avuto sempre un rapporto un po’ “puerile” con il potere, bussando alle porte ed assillando le persone che potevano accogliere le mie proposte, convincendole con grande fatica sulla coincidenza necessaria fra obiettivi dell’amministrazione, validità delle idee ed aspettative della cittadinanza. Tutta la mia storia professionale è stata segnata da questa caratteristica e, di certo, l’essere donna non è stato di grande aiuto. Probabilmente in Italia, soprattutto a Roma, sarebbe stato comunque difficile raggiungere questi obiettivi, data l’autonomia della politica e l’atteggiamento della Pubblica Amministrazione.
Ci racconti della sua esperienza come direttrice del Festival delle Letterature della Capitale?
Nel 2002 Veltroni voleva organizzare un Festival letterario a Roma ed io ho pensato di creare qualcosa di nuovo e diverso dal Festival di Mantova, che concentrava tanti ospiti in pochi giorni. Volevo una formula diversa, più rilassante, per questa città così complessa: venne fuori l’idea di distribuire gli scrittori ospiti con uno-due appuntamenti a settimana nell’arco di due mesi: se qualcuno non poteva un giorno o una settimana poteva recuperare in altre occasioni. Anche qui ho voluto pensare da filosofa, mettendo in risalto l’aspetto valoriale della letteratura, interrogandomi su cosa quest’ultima poteva fare nella nostra vita, mantenendo al tempo stesso toni alti e bassi, per raggiungere sia chi è già appassionato lettore, sia chi non legge. L’idea di dare un tema ogni anno, con relativo inedito a cura dello scrittore ospite è stata vincente: un’idea creativa ma alla portata di tutti: toni alti, toni bassi. Ad esempio il mito della solitudine dello scrittore, quest’anno giunti alla settima edizione, si traduce in “Rinominare il silenzio”. La scommessa è riuscita bene, ha avuto da subito una buona stampa. Altro elemento vincente è stato quello di dare centralità al testo: niente fronzoli né domande - la stampa incontra gli autori prima della serata – un massimo di 12 scrittori al mese e tutti sullo stesso tema, l’idea era quella di ricreare la magia della scrittura ma leggendo a voce alta. Quest’anno abbiamo modificato l’impianto delle serate di apertura e chiusura che sono state serate di letture collettive, d’inediti sulla storia, con la partecipazione anche di grandi poetesse.
Quale criterio ha determinato la scelta delle scrittrici da invitare al Festival?
Ogni anno cerco di avere una grande attenzione per le autrici: ho cercato innanzitutto, nel corso delle sette edizioni, di avere tutte le più grandi scrittrici viventi, basti pensare ad Isabel Allende, Nadine Gordimer, Agota Kristof, Azar Nafisi, Toni Morison, Doris Lessing, ecc. Al tempo stesso, oltre alle scrittrici di culto, cerco di individuare le emergenti che abbiano scritto opere interessanti, o le autrici di nicchia, trasgressive, fuori della norma. Questo per offrire un panorama quanto più possibile diversificato e completo.
Può dirsi soddisfatta della sua carriera e dei risultati di qualità raggiunti con il suo lavoro?
Mi rendo conto che, in apparenza, può sembrare che io abbia fatto tutto quello che ho voluto in questi anni: in realtà vorrei specificare che per raggiungere certi obiettivi ho dovuto faticare moltissimo, davvero in modo esagerato, senza riconoscimenti ma piuttosto con continui problemi e bastoni fra le ruote, dovendo costantemente spendere poco (il Festival costa circa 400 mila euro all’anno ed è veramente un record) e raggiungere risultati di cui altri, quando l’iniziativa aveva successo, si sono fatti vanto. Credo che sia davvero eccessiva la fatica che si fa in questo Paese per ottenere certi risultati, probabilmente siamo un po’ masochisti.
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