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Cronache dai vicoli di una baraccopoli

Cronache dai vicoli di una baraccopoli

Africa/ Le leaders degli slum - L’esperienza di una visita in uno slum può cambiare la vita. I valori si rovesciano, sorge la necessità di trovare nuovi significati

Giulia Salvagni Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2005

Nairobi, capitale del Kenya, è una delle più grandi metropoli africane, ha una crescita di abitanti vertiginosa. Nel 1990 ne contava un milione e mezzo, oggi ha superato i quattro milioni, ma più della metà - due milioni e seicento mila - vivono nelle baraccopoli.
Le baraccopoli dette slum, in inglese perché il Kenya è una ex colonia britannica, hanno cominciato a formarsi circa venti anni fa. Ora sono molte, tra queste c’è la più grande di tutta l’Africa, si chiama Kibera, conta settecentocinquantamila persone.
Queste grandi distese di catapecchie costruite con cartone, plastica e carcasse arrugginite hanno nomi quasi poetici: Deep sea, Suswa, Maasai. Ma la poesia si trasforma non appena vi si entra. “Sono luoghi di fogna e di fango, territori dove si nasce, si sopravvive e si muore, nient’altro” così li descrivono i volontari di Afrika sì che stanno lavorando per il recupero delle donne e degli uomini che vi abitano. Molti degli slum sono proprio al centro, vicino l’università, intorno alle discariche dei ricchi, accanto alle loro case. I residenti dello Westland, produttori dell’ambita “immondizia ricca”, mal li sopportano e di tanto in tanto c’è chi appicca qualche incendio nel tentativo di eliminarli. Bruciano tutto, abitanti compresi. Negli slums abitano povere genti di etnie diverse che stanno subendo gli effetti di un aberrante sviluppo economico, condotto secondo modelli sociali e culturali a loro estranei. Vengono cacciate dai villaggi perché le loro terre, distese di ettari sconfinati, vengono vendute in prevalenza ai bianchi.
Sradicati dal loro ambiente tradizionale, allontanati dalle loro coltivazioni, agli indigeni non rimane altra risorsa che accamparsi accanto alle discariche della metropoli. Ma lì ogni identità culturale si perde, non ci sono più regole, non ci sono cittadini. Il responsabile primo degli espropri è il governo che tuttavia non ha mai preso alcun provvedimento nei loro confronti. Non ha progettato strutture di accoglienza né sul posto e neanche nelle periferie cittadine. La cosa terrificante è che, siccome quello è terreno comunale, ora viene chiesto anche l’affitto a gente che non ha nulla. E la corruzione pare che sia molto diffusa. “Che fine faranno i soldi che il governo riceve per gli aiuti umanitari?” si chiede la psicologa Alessandra Tiengo fondatrice, con il dottor Ennio Di Giulio (dell’Ospedale san Camillo di Roma), di Afrika sì.

Vita da cani
Con pochi mezzi e quasi per caso, l’associazione è nata cinque anni fa dall’incontro con un missionario residente a Nairobi, padre Franco Cellana: “Volete vedere gli slum?”. Da quel momento la loro vita è cambiata. Fu quello il loro primo passo verso l’inferno dei vivi, come l’ha poi definito il dottor Di Giulio. Dal racconto di Alessandra Tiengo emerge tuttavia la figura positiva di molte donne africane. In loro c’è la ricerca di una speranza di vita, per riscattarsi da un mondo dove si vive tra fango e sterco, dove si sono persi i concetti di dignità e di famiglia. Negli slums infatti non esistono nuclei monogami (tranne rare eccezioni) e neanche poligami.
Gli uomini durante il giorno vanno in città, campano di piccoli espedienti, di ruberie e poi vanno ad ubriacarsi.. A fine giornata arrivano negli slum storditi al punto che non riescono neanche a stare in piedi, si buttano in quei vicoli come fogne a cielo aperto. Smaltiscono un po’ la sbornia, poi cominciano a fare il giro delle baracche. Consumano i rapporti con le donne che subiscono un andazzo di vita che in Occidente si chiama violenza, invece per tutte loro – bambine, adolescenti e adulte - è l’accettazione passiva di un modo di sopravvivenza. “Chiamarle prostitute è scorretto - afferma Alessandra - perché chiunque vivesse e crescesse in quelle condizioni, credo che si comporterebbe allo stesso modo”.


Però tra molte donne si è stabilita una sorta di alleanza. Sentono di essere deboli, hanno quindi l’esigenza di eleggere all’interno di ogni slum una loro capo, quella tra loro che può meglio difenderle sia per carisma che per capacità oratorie. Tutte durante la giornata si danno da fare, c’è chi fruga nelle discariche, alcune vendono il changà oppure le patate, altre ricevono gli uomini della città che le pagano con qualche scellino.
C’è l’uso che quando la donna rimane in cinta e l’uomo pensa di essere stato lui, se ha un minimo di possibilità, passa alla donna tre mesi di alimenti: un pugno di riso, qualche patata. Per alcune, quindi, rimanere incinte è la speranza di un po’ di cibo. Quando partoriscono si occupano dei piccoli come possono, altre invece li lasciano al loro destino. Sono ragazzi che non rimangono vicino agli slums, in genere si riuniscono nelle strade del centro, formano le bande degli street-boy. Li chiamano chokorà, significa i ragazzi dell’immondizia. Hanno la pessima abitudine di sniffare una specie di colla che distrugge i centri neurologici cerebrali.
Il maschio adulto si ubriaca con il changà, una sostanza ricavata da una radice di pianta che nasce lì, mischiata con fermenti di luppolo e poi unita al cherosene degli aerei. È un miscuglio micidiale. Lo producono da soli con degli alambicchi artigianali. È qualcosa che, pur distruggendo il sistema nervoso, non fa sentire la fame e il freddo. Nairobi è a mille e seicento metri di altezza, la mattina e la sera fa freddissimo, il giorno invece è molto caldo fino ad arrivare a punte di trentotto gradi. “Lì non ci sono le quattro stagioni come da noi – racconta Alessandra -, c’è la stagione calda e quella delle piogge tropicali che sono devastanti e che spesso trascinano via le baracche”.

Incontrarsi nello slum
Perché Afrika sì si è rivolta in particolare alle donne? “Tieni conto che la percentuale di analfabeti e di alcolizzati è altissima. Loro sono le più lucide, non si ubriacano ed hanno una carica di energia vitale maggiore - spiega Alessandra -. Le persone alle quali invece non interessa nulla, rimangono a terra, a marcire nell’inedia. Questo purtroppo capita in ogni società, ma la disgrazia è che ora una piccola parte di loro fa guerra a chi lavora con noi”.
È difficile lavorare sullo stare insieme, sulla cultura dell’incontro, soprattutto in quegli ambienti ma: “È importante riflettere su un punto - precisa Alessandra - che il bianco in Africa, spesso si sente portatore dell’unico modello di vita e di cultura giusto. Anche quello più in buona fede, si dimentica di trovarsi in un territorio con una storia ed una cultura diversa. L’Africa non si finisce mai di conoscerla. Non bastano libri, documentari, bisogna viverla. E quando ci sei dentro, neanche quello basta. Devi riuscire a farti accettare”.
Alessandra parla a fatica, questa esperienza le ha cambiato la vita, l’emozione le spezza la voce. Era abituata a lavorare in situazioni molto critiche, per diversi anni è stata psicologa al manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma. “Ma qui è qualcosa al di fuori di ogni immaginazione!”. Racconta del suo lungo lavoro di volontaria in Africa fatto di scambi reciproci, dell’importanza del chiedere una comunicazione con loro con spirito di umiltà. Solo così ci si può aiutare a vicenda: “Perché noi aiutiamo loro, ma anche le persone degli slum stanno dando a noi una grande lezione di vita”.
Il primo ingresso nello slum è stato uno shock: “Quando padre Franco ha lasciato Ennio e me lì soli per un intero giorno, è stato scioccante. Abbiamo camminato piangendo per ore ed ore senza riuscire a far nulla. In seguito, cercando di comunicare a gesti, ci siamo fatti conoscere. Ma abbiamo potuto iniziare a portare le cose essenziali solo dopo che siamo stati accettati dalle donne e dalla leader dello slum, alla quale si deve chiedere il permesso per fare qualsiasi cosa”.

Alessandra e Virginia
È stato così che tre anni fa Alessandra ha trovato una preziosa alleata: Virginia, capo dello slum Deep Sea. Grazie alle donne è cominciato il primo intervento sul fronte sanitario: “Andavamo di baracca in baracca scrivendo il nome delle persone, le malattie che trovavamo, anamnesi e diagnosi. Poi, capito che non potevamo lavorare girando per quei tuguri piegati in due per dodici ore al giorno, abbiamo sistemato, con i pochi soldi che ci erano rimasti, una baracchetta abbandonata. Abbiamo improvvisato con casse e stuoie un lettino ed abbiamo aperto il nostro primo ambulatorio. Io lavavo i piccoli, Ennio li curava. Lì non c’era acqua. Me la portavano le donne dalla fontana che è in città. Ma non bastava. Abbiamo quindi progettato l’installazione di una fontanella, di bagni e di docce per ogni slum. Prima che ci dessero il permesso per l’allaccio è passato un anno. Gli impiegati del Comune speravano forse in una tangente che noi non abbiamo dato. Intanto abbiamo raccolto il sostegno economico di privati, un po’ scavando con l’aiuto delle donne, un po’ con l’intervento di una ditta idraulica veneta, siamo riusciti ad installare le docce e i bagni. Poi l’acqua è arrivata ed ora abbiamo nominato le responsabili per ogni cosa. C’è chi pulisce i bagni, chi le docce, chi si occupa del rifornimento della carta igienica e così via…”.
La stretta collaborazione tra Afrika sì e Virginia non è piaciuta a chi non ha interesse che la situazione all’interno degli slum migliori. La capo slum è stata più volte minacciata di morte, hanno massacrato di botte il suo nuovo compagno, padre dei suoi ultimi due figli. “Per proteggere la vita dei tre figli di Virginia, siamo riusciti ad iscriverli in un istituto fuori Nairobi - racconta Alessandra – Non è stato facile, nelle scuole cittadine i bambini poveri vengono rifiutati”.
Virginia era molto attiva già prima dell’arrivo dei volontari italiani. Ogni giorno andava per le strade di Nairobi dando un po’ di patate agli street boys. È molto energica, viene dalla tribù dei Kikuju, una delle più popolose che vive alle pendici del monte Kenya. Nello slum vive in una baracchetta di due metri per due. Prima vendeva patate, ora vende caramelle e Coca Cola, perché lì la Coca Cola e la Fanta sono le bevande che costano di meno. Ha una grande capacità comunicativa. Durante i meeting al Comune è lei che rappresenta le tre baraccopoli supportate da Afrika sì. Ha convinto la maggior parte delle donne ad accettare l’aiuto dei volontari. “Non facciamoci sfuggire questa opportunità!”. Andava ripetendo a tutte. Ancora oggi fa opera di comunicazione tra tutti i residenti degli slum, perché lì c’è una ferocia tremenda, non è facile coagulare l’interesse di tutti intorno ad un progetto comune. “Virginia cerca di far ragionare le persone – spiega Alessandra -, perché in quella situazione l’unione fa la forza nel vero senso della parola”.


Progetto numero uno: vivere
In 4 anni di lavoro Afrika sì ha portato l’acqua nei tre slum, costruito 3 ambulatori, 2 scuole per più di 400 bambini con tre insegnanti della città. Un laboratorio per le donne che stanno recuperando le loro tradizioni artigianali. Un programma alimentare per far mangiare i bambini almeno una volta al giorno. Con le leaders degli slum si è discusso sull’opportunità di realizzare dei progetti per le adolescenti sui problemi dell’educazione sanitaria e scolastica. Si è creata una rete di incontri per elaborare le idee in modo da adattarle alla loro mentalità.
Le scuole stanno diventando il punto di riferimento per i ragazzi abbandonati. “Sono tutti ragazzi traumatizzati – dice Alessandra – ma devo dire che lì, nel letamaio, ho trovato delle vere perle”.
C’è un proverbio africano che dice: “Istruisci un giovane e farai di lui un uomo saggio. Istruisci un bambino e farai crescere una nazione”. È un messaggio di speranza, di impegno, di incontro. Ma la vita non è facile. Ci sono alcuni gruppi di ex-schiavi dei coloni britannici, per lo più indiani, che si sono arricchiti con il commercio. Il maggior numero di negozi, a Nairobi, appartengono a loro. Costoro non sopportano gli slums. Non li vogliono. Fanno di tutto per cacciare questa povera gente. Gettano polpette avvelenate tra i vicoli. I bambini lì hanno sempre fame e raccolgono tutto, lo scorso anno ne sono morti quattro. E la baraccopoli Maasai è andata completamente distrutta per un incendio doloso. Sono questi i casi che fanno capire con maggiore chiarezza che il male non si estirpa facendo altro male, al contrario, aiutando. Le posizioni dure, quelle che non vanno incontro a chi è ai margini della società, non sono vincenti. “Noi continuiamo a fare progetti e a realizzarli – spiega Alessandra -. Allo slum Maasai stiamo ricostruendo tutto meglio di prima per quel che ci è possibile. ‘Piano piano’, ‘pole pole’, come dicono qui”.

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