Anna Politkovskaja - La giornalista russa assassinata per le sue inchieste molto scomode per il Cremlino
Cristina Carpinelli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2006
“La mia vita può essere difficile, più spesso umiliante. A 47 anni non sono, dopotutto, così giovane da accettare di imbattermi costantemente nei rifiuti e di farmi sbattere in faccia la mia condizione di paria. Però posso conviverci. Non voglio dilungarmi sulle altre gioie della strada che ho scelto: l’avvelenamento, gli arresti, le lettere minatorie, le minacce di morte al telefono, il fatto che mi convochino ogni settimana nell’ufficio del procuratore generale per firmare dichiarazioni su tutti gli articoli che scrivo. Ovviamente non mi piacciono gli articoli derisori che appaiono su altri giornali e su siti internet che mi hanno a lungo presentata come la “pazza” di Mosca. Trovo disgustoso vivere così; mi piacerebbe ricevere un po’ più di comprensione. La cosa più importante, però, è continuare il mio lavoro, descrivere la vita che vedo, ricevere tutti i giorni in redazione persone che non hanno un altro luogo in cui portare i loro guai perché il Cremlino trova le loro storie inopportune, e così il solo luogo che può dar loro voce è il nostro giornale, la Novaja Gazeta” (A. Politkovskaja).
Ho conosciuto Anna Politkovskaja in un Congresso di giornalisti negli anni ottanta, a Mosca. A quei tempi Anna era una giovane cronista non ancora nota in Occidente, ma già accreditata nel suo paese come una delle promesse del giornalismo russo. Erano gli anni febbrili della perestrojka. Proprio in quel periodo cominciava ad emergere una stampa indipendente: prima la 'Obshaja Gazeta' e poi la 'Novaja Gazeta', giornali di Mosca dei quali la Politkovskaja è stata corrispondente. Ho della sua immagine un ricordo vago (se non che i suoi capelli non erano ancora canuti), ma ho impresso nella mente la grinta e la carica vitale che caratterizzavano quell’esile figura. Allora scriveva articoli appassionati sulla glasnost’, e già denunciava l’avvento di una classe di russi (i “nuovi ricchi”), che attraverso la graduale spoliazione dei beni statali stava procedendo verso quell’accumulazione del capitale che le avrebbe poi permesso nel corso della transizione di emergere come ceto oligarchico. Ricordo un particolare: in quel Congresso, la Politkovskaja aveva apertamente accusato di corruzione gli uomini d’affari in Russia, che spuntavano come funghi, e che non avrebbero potuto in seguito raggiungere tanta ricchezza senza sostenere la malavita, poiché come aveva affermato in quell’occasione “la troppa ricchezza non è mai innocente!”. Come un digger (nel gergo moscovita sono i ragazzi che si calano nelle fogne della città per raccontare di mostri e vampiri che vi abitano) aveva cominciato a scendere nel sottosuolo del Cremlino, per riemergere con storie di ricatti e di censura, di gestione meschina del potere, di speranze tradite e di segreti inconfessabili. Messo fine al “carnevale eltsiniano”, di cui la Politkovskaja salvava solo il baluginio di libertà, iniziava il nuovo corso putiniano, e con esso le crociate giornalistiche di Anna contro le nefandezze di un sistema, nel quale l’informazione “politically not corrected” era sistematicamente espulsa dalla tribuna mediatica russa. Senza indugio Anna rompeva un silenzio forzato, raccontando delle oscure viscere della vita nella nuova “Russia di Putin”. Non facendo sconti a nessuno, accusava i capi russi di aver svenduto il popolo russo per petrolio e gas, e l’Occidente acquiescente che non prendeva posizione riguardo alla corruzione endemica, gli sforzi irrisori per la democrazia, la brutalità omicida dei militari e il disinteresse verso la sofferenza dei bosjaki (i deboli) presenti nel paese. Ma la sua grande ed ultima battaglia Anna l’aveva condotta indagando sui misfatti russi in Cecenia. Più volte aveva reso noto il regime di terrore con cui i miliziani tenevano in pugno la popolazione civile, così come quello praticato dall’esercito russo con le continue torture. Reportage di guerra documentati che le erano valsi un premio giornalistico all’estero ma due arresti in patria. Sapeva che i principali crimini erano da imputare all’esercito russo. I metodi di Putin in Cecenia avevano generato un’ondata di terrorismo “senza precedenti nella nostra storia” - come affermava la giornalista. E la guerra al terrore di Bush e Blair aveva aiutato il presidente: “Molti russi - diceva la Politkovskaja - hanno provato un piacere perverso nel vedere le foto degli abusi americani nel carcere di Abu Ghraib. L’ho sentito ripetere più volte. In Russia la gente ne parla con orgoglio. (…) Putin è riuscito, inoltre, a convincere la comunità internazionale che anche lui sta combattendo il terrorismo globale. E c’è riuscito”. Ma lei non voleva rassegnarsi al “requiem” per un intero popolo che i potenti della terra stavano eseguendo in un singolare balletto di interessi tanto diversi quanto convergenti.
Non c’era nessuno “scomodo” quanto Anna Politkovskaja. E lei lo sapeva. In un suo articolo “Una condannata” (Guardian - 15.10.2006) dichiarava: “Sono un paria. Questo è il risultato principale del mio lavoro giornalistico negli anni della seconda guerra cecena e dell’aver pubblicato all’estero alcuni libri sulla vita in Russia e sulla guerra cecena. A Mosca non m’invitano alle conferenze-stampa né alle riunioni alle quali siano presenti personalità del Cremino…”. E ancora: “Sono un nemico. Anzi, un nemico incorreggibile che non si presta ad essere rieducato. Non sto scherzando. Tempo fa Vladislav Surkov, vice presidente dell’amministrazione presidenziale, ha spiegato che esistono dei nemici che possono essere ricondotti alla ragione e nemici incorreggibili con i quali ragionare è impossibile e che devono essere semplicemente “epurati” dall’arena politica. E così stanno cercando di togliere di mezzo me e altri come me. (…) Disprezzo la linea del Cremino, elaborata da Surkov, che divide le persone tra coloro che stanno dalla nostra parte, e chi non sta dalla nostra parte. (…) Ma quale crimine mi ha fatto meritare questa etichetta di non una dei nostri? Mi sono limitata a riferire quello che ho visto, niente di più. Ho scritto e, meno frequentemente, ho parlato. Sono perfino riluttante a commentare. (…) Mi sembra che i nostri lettori siano capaci di interpretare da soli quello che leggono. Ecco perché il mio genere è il reportage…”. Non c’è dubbio: Anna è stata colpita per la sua onestà professionale. E mentre il mondo urla che sia fatta giustizia nei suoi confronti, il silenzio ostinato del Cremlino rievoca il vecchio criterio stalinista, secondo cui “una persona morta è un caso archiviato”.
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