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Cosmopolita Zaha Hadid, molto più che architetta - di Valeria Ines Crivello

Cosmopolita Zaha Hadid, molto più che architetta - di Valeria Ines Crivello

Forme e volumi - Dal MAXXI di Roma al Centro Acquatico per le Olimpiadi di Londra al Ponte dedicato allo Sheikh Zayed ad Abu Dhabi: un’artista sulla scena internazionale

Lunedi, 29/10/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2012

Una delle nuove leve della professionalità femminile artistica nel mondo è Zaha Hadid. Architetta, pittrice, imprenditrice di sé stessa, ma, prima di tutto, una donna araba.

Nei suoi quasi quarant’anni di attività, Zaha Hadid può vantare un curriculum di tutto rispetto e, grazie alla sua grinta e determinazione, è arrivata a confrontarsi con i grandi architetti della scena internazionale… Gustando anche il piacere di superarli! Nel 2004 la giuria del Pritzker Prize ha affermato, assegnandole l’omonimo premio, che “All architects have to struggle, but Hadid seems to have struggled rather more than most” (“Tutti gli architetti devono combattere, ma Hadid sembra aver combattuto più degli altri”). Per la prima volta dopo 26 anni di storia dalla sua fondazione, un premio prestigioso per gli architetti come il Pritzker Prize è stato conferito ad una donna, e per di più ad una donna araba.

Nasce a Baghdad negli anni Cinquanta, vivendo la sua infanzia in una capitale irachena che si sta svegliando economicamente e che comincia a porre le basi per la creazione nazionale. Mentre nel 1977 si laurea in Architettura a Londra, una capitale in balìa delle rivoluzioni studentesche e della stagnazione economica, caratterizzata da scioperi delle maestranze e da alti tassi di disoccupazione. Ottenendo la cittadinanza britannica, Hadid può affermare di appartenere a due universi culturali, che emergono distintamente sia nella sua personalità sia nella sua professione. In questa doppia appartenenza, la cultura araba si esprime attraverso i ricordi adolescenziali, quando da ragazzina voleva dipingere le sensazioni suscitate dai viaggi nella valle del Tigri e dell’Eufrate (i luoghi di nascita dell’umanità), mentre l’esperienza inglese esplode nel suo modo di fare architettura, ispirata dalle opere pittoriche delle avanguardie russe suprematiste. Come ha affermato l’architetto newyorkese Lebbeus Woods, i motivi per cui Hadid sia rimasta affascinata dalla pittura suprematista sarebbero, infatti, da ricercare nella sua storia personale, fatta di continui viaggi. Grazie al suo carattere cosmopolita, Hadid ha potuto condividere pienamente l’astrattismo, già a partire dal progetto per la tesi di laurea. Il “Suprematismo” di Malevich sostiene che l'artista moderno deve guardare a un’arte liberata da fini pratici ed estetici e ricercare un percorso che finalmente possa condurre all’essenza pura dell’arte. La diretta conseguenza di ciò è l’irrealizzabilità della costruzione dei suoi progetti concepiti nei primi dieci anni di attività. Soltanto negli anni Novanta viene realizzata la Stazione per i Vigili del Fuoco di Vitra, in Germania, che si caratterizza per l’introduzione di una nuova metodologia progettuale: il Parametricismo, ideato insieme all’architetto collaboratore Patrick Schumacher. Gli edifici “si spezzano” e “fluttuano”, ovvero subiscono una frammentazione nelle loro parti e una ricostituzione in forma di fluido, il che conferisce all’intero complesso una nuova continuità visiva con il resto della città.

Oggi possiamo vedere la sua firma in tantissimi progetti spettacolari realizzati in tutto il mondo: per elencarne alcuni, dal Museo MAXXI di Roma al Progetto Citylife per l’Expo 2015 di Milano, dal Centro Acquatico per le Olimpiadi 2012 di Londra al Ponte dedicato allo Sheikh Zayed ad Abu Dhabi.

La sua è una firma che porta con sé anche il vero spirito dell’energia femminile in architettura, come è emerso da uno studio di Wonoseputro, lettrice al Dipartimento di Architettura presso l’Università Cristiana di Petra: “i lavori di Zaha Hadid rivelano esplicitamente una personalità indipendente e energica nel presentare la fluidità delle forme artistiche (come nell’esposizione alla Biennale di Singapore del 2006), come pure la liricità e il dinamismo di un trampolino di lancio per sciatori dalla silhouette curvata e esuberante, tesa verso cielo (come nello skyjump di Bergisel ad Innsbruck, costruito nel 2002)”.

Ma la ricerca di eventuali principi tipicamente “femminili” nell’architettura, come in qualsiasi ambito lavorativo, rischia di assumere connotati stereotipizzanti, come se esistessero due distinti modi di fare e il pensiero “maschile” fosse considerato come il metro di paragone della pratica femminile. Come Hadid stessa ha affermato in varie occasioni: “non si può ridurre la questione lavoro a un problema di genere maschile o femminile”, anche se di fatto esistono ancora ineguaglianze, cui gli studiosi di sociologia cercano di dare spiegazioni.

Joumana Haddad ci ha fornito un piccolo elenco di professioniste arabe nel suo libro “Ho ucciso Shahrazade” (“Non tutte le donne arabe mancano di spina dorsale. Per averne la prova schiacciante basterebbe che noi, occidentali e arabi, leggessimo i saggi di intellettuali come May Ziadeh, Hoda Shaarawi, […]; scoprire di racconti di scrittrici come […] Hoda Barakat, Hanan al-Sheikh; ammirare i lavori di artiste come Zaha Hadid. Mona Hatoum […].”). Questo ci da la prova che oggi le donne, e nella fattispecie le donne arabe, stanno raccogliendo i propri frutti dopo una vita passata a lottare con “le unghie della professione” contro i pregiudizi di una società prevalentemente maschilista. Grazie a Dio! O sarebbe meglio dire, Al-hamdu Li-llah!

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