Due storie solo apparentemente differenti...
Una amica palermitana, Beatrice Monroy, scrittrice, intellettuale e attivista da decenni contro il fenomeno mafioso, mi ha raccontato una vicenda personale di abuso che appare lontana dal tema della violenza maschile, ma in realtà così non è: se un ragazzo dice ad una donna anziana “se tu vivessi con un uomo, invece che da sola, non mi comporterei così” dobbiamo domandarci il perché di questa affermazione e quali siano le basi culturali che consentono un pensiero simile.
Sono convinta che sia utile dare voce alle sue riflessioni, da un privato che inevitabilmente diventa politico se si connettono i vari fili della questione.
Scrive Monroy in una lettera inviata ai giornali locali e fino ad ora non pubblicata: “Vivo a Palermo e come tantissimi altri palermitani sono perennemente vittima di disturbi alla quiete pubblica. In città interi palazzi subiscono la tortura dei pub senza potere fare niente, senza difesa alcuna, nel totale disinteresse e abbandono. Nel mio caso si tratta del ragazzo dell’appartamento confinante con il mio. Sul terrazzo di casa sua ha una stanza dove suona musica tecno a un volume tale che da me tremano i vetri e l’intero vicinato lo subisce. Questo incubo dura da tre anni e nessuno mai ci ha difeso.
Il fatto che in tanti anni non ci sia stato modo né di essere difesi dalle istituzioni né di farlo ragionare, mi fa riflettere su dove si annida la violenza. Infatti mi pare che il meccanismo della violenza sia sempre lo stesso. Un giovane uomo ha delle pulsioni, sessuali, pseudo musicali ecc., e le sue pulsioni sono al centro, sono le uniche che valgono, che vanno protette e che hanno diritto a esprimersi, che ci siano una o più vittime della sua conduzione di vita questo non conta. L’importante è essere al comando. È una guerra permanente, vince il forte, rendendo l’altro una preda inerme.
Le madri, i padri che difendono i figli violenti stanno difendendo questa modalità e, inoltre, l’assenza totale dello Stato dà il permesso di agire come un diritto una vita violenta e di sopraffazione e chi subisce può solo tacere. Nel mio caso si è arrivati al punto che la madre del ragazzo ha cercato di denunciare me, la vittima, perché scatenavo odio contro suo figlio sui social riferendosi a un mio post scritto dopo una notte d’inferno in cui aveva suonato fino alle tre del mattino. Ci si compiace delle pulsioni, non tenendo mai conto di cosa succede alle vittime. Ci si compiace perché i ragazzi, in questo modo, affermano il loro diritto violento a stare al mondo. Ho chiesto in tutti modi negli anni a questo ragazzo, avvocati a mai finire, di non rovinarmi così la vita. Lui suona quando ha la pulsione, può essere di giorno, di notte, quando appare in lui il momento del suo bisogno, quindi io debbo adattarmi.
Gli ho chiesto d’insonorizzare la stanza: non lo fa perché la stanza diverrebbe troppo piccola; gli ho detto “ti regalo delle super cuffie”: ha detto no perché la musica deve viaggiare; gli ho chiesto di fissare degli orari: ha detto no perché lui suona quando ne sente la necessità. Perché fa così? Questo è interessante. Dietro, cosa c’è? La necessità della sopraffazione: io, una donna sola, debbo solo subire e tacere, non ho diritti. Farmi sua, è la stessa cosa, essere come lui vuole e vivere quando lui mi da il permesso, riconoscendo la sua superiorità e adattarmi così come mi ha detto pure la polizia dove ho cercato disperatamente, decine di volte, un aiuto che non mi hanno mai dato: “Signora lasci correre... è un ragazzo”. Per anni ho tentato di denunciarlo ma mi mandavano sempre a casa, una vecchia con i capelli bianchi si deve adattare e lasciare vivere i giovani, così, proprio così. Quando mi sono presentata con la figlia di un martire di mafia - lei ha detto ti accompagno io - si sono aperte le porte ma la denuncia non è servita a niente e non se ne sa più niente. Perciò denunciare per violenza? Inutile, lo Stato non ti protegge.
Nel lontano ‘89 io, insieme a un numero imprecisato di giovani donne, circa venti, fummo stuprate da un carabiniere. Usciva di notte, armato, puntava l’arma e faceva i comodi suoi a noi giovani donne tenute sotto scacco dall’arma puntata alla gola. Sono morta quella notte, e mai più rinata, perché esattamente questo è quello che succede con uno stupro. Nell’89 non esisteva la legge sulla violenza contro la persona fisica per stupro ma solo contro la morale. Ci fu un processo farsa, il carabiniere si prese sei mesi e a noi si consigliò di tacere. Dimenticare, questa la parola, non parlare con nessuno perché il dire era scandalo su di noi. Noi vittime non avevamo nessun diritto a esprimere, a urlare il nostro dolore di essere divenute preda, perché il parlare era scandaloso. E noi tacemmo tutte. Sono passati più di trent’anni ed eccomi qui a mettere insieme i pezzi dell’evento che mi ha rovinato la vita, di quell’infame tacere da cui non sono potuta mai uscire. Metto insieme queste storie perché non sono così lontane, entrambe contengono il tema centrale della sopraffazione d’un corpo sull’altro, del divenire preda e dell’abbandono assoluto da parte dello Stato. Abbandono. Solitudine, disinteresse e scandalo ma soprattutto la mentalità del dominare: io sono più forte di te, tu fai quello che dico io e devi tacere, ecco dove si annida la violenza. Guerra contro i nostri corpi, le nostre intelligenze, le nostre vite”.
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