Una bella firma del giornalismo italiano, rispondendo ad un lettore perplesso per certe "innovazioni" linguistiche come "sindaca", "prefetta", "magistrata" o, tremendo, "presidentessa", ha riconosciuto la correttezza dei "nuovi" termini, ma ha anche involontariamente rivelato le conseguenze di quello che il Manzoni chiama il primato dell'uso della lingua (che è un organismo vivente e non è così neutra come sembra) dato che è intoppato in una caduta di stile (percepisce, ridacchiando, dietro la ministra l'eco fonetico della minestra. Non me lo sarei aspettata da un uomo solitamente elegante).
Quindi, ancora una volta (il libro sul linguaggio sessista nella lingua italia, edito dalla Presidenza del Consiglio, è del 1987) rimettiamo un po' d'ordine, anche se negli anni, soprattutto, da quando presiede i lavori della Camera Laura Boldrini, i modi di perpetuarsi dei pregiudizi si sono rivelati sempre più insidiosi. Perché non è in questione il femminismo, ma la morfologia della lingua italiana e della sua conservazioni/innovazione.
In prima elementare vengono insegnati i "generi": la donne hanno ripreso il termine "gender" a livello internazionale per affermare la propria cultura e i propri diritti, mentre in Italia diciamo "genere" per far intendere che l'interpretazione dell'art. 3 della Costituzione, quando mette al primo posto il "sesso" come diritto di uguaglianza, pone una questione concettuale, non biologica.
Quindi in corretta morfologia dell'italiano maschile e femminile segnano differenze di pari valore, allo stesso modo di singolare e plurale. Pura grammatica, per cui maestro si declina al femminile in maestra, senza problemi.
Invece un piccolo freno mentale intoppa la lingua nel dire ministra, anche se il sostantivo è derivato dal latino minus (che, rispetto al magis, il "di più" del maestro, ne renderebbe inferiore la dignità): disturba solo perché si riferisce ad una carica superiore dalla tradizione inimmaginabile al femminile. Per la stessa ragione soldato, anche se non tutto il femminismo si è esaltato per la riconosciuta parità, fa soldata, forma regolare di tutti i nomi con desinenza in -o e chi dice "soldatessa" fa errore blu.
Nel caso, tuttavia, del suffisso -essa, c'è qualche complicazione, sempre linguistica. Presidente o docente restano participi ("colui o colei che presiede. che insegna"), differenziati solo dall'articolo.
Vero è che diciamo "studentessa", ormai inamovibile per costanza d'uso: qui sovviene la sociologia a spiegare che si tratta di un lascito dei tempi in cui fu impossibile lasciare fuori dalle scuole pubbliche le bambine che, fino all'Ottocento era meglio se si astenevano dagli studi, soprattutto se nascevano in case senza precettori privati. Fu più facile accettare che l'alunno avesse l'analogo femminile, meno facile per gli studi superiori: entrarono con una denominazione di specie in sezioni femminili distinte perfino negli ingressi.
Analoga la desinenza per i nomi in -e: lasciamo senza problemi principesse, contesse e altre meno nobili (le ostesse!) nella storia della lingua, anche se non può non far riflettere il "professora" usato dal cardinal Lambertini quando, nel XVIII secolo, conferì la cattedra a Laura Bassi. Non a caso il Devoto giudicava "offensivo" il suffisso -essa, ovviamente usato non per questi casi, ma, per esempio, per "avvocatessa", pur amato anche da avvocate.
Speriamo che Papa Francesco, se vorrà, apra le porte dei ministeri alle diacone e non alle diaconesse: sarebbe grave usare la grammatica conservatrice quando si innova.
Quanto al femminismo, è ovvio che sarebbe cretino chiedere di raddrizzare le gambe storte dell'uso codificato dalla storia. È invece necessario conoscere le ragioni che rivelano la continuità della discriminazione sessista nel linguaggio, anche per non perseverare.
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