Martedi, 12/07/2011 - I riti di iniziazione sanciscono il bisogno di conformarsi. Il riconoscimento si tramuta nella ragione stessa del passaggio da una condizione ad un’altra affinché lo sforzo performativo si compia attraverso l’ingresso in un mondo che sembra promettere, finalmente, la piena realizzazione identitaria.
Alice Rohrwacher in 'Corpo celeste' (opera prima prodotta dalla Tempesta Film) ci mostra, attraverso una distorsione che opera nel simbolico, il corpo nella costruzione del sé, portatore dell’umano, del sacro, carne mediata che è la stessa natura umana. Marta, nome biblico (colei che professa la fede in Cristo e ne riceverà in cambio il miracolo della resurrezione), è un piccola donna il cui passaggio dall’infanzia all’adolescenza coincide con altri passaggi: il cambiamento dell’ambiente che, come una placenta, la contiene ma è vischiosa e soffocante; la preparazione alla cresima, rito cattolico che preclude l’ingresso ufficiale all’età matura attraverso l’accettazione autonoma del rinnovato rito battesimale. Questo film è il racconto di un nuovo battesimo vissuto sulla pelle elastica e acerba e negli occhi timidamente spalancati alla vita di una bambina che deve scegliere fra il desiderio (che è la verità) e il riconoscimento. Ed è proprio sul corpo che si iscrive questo passaggio, e ancora una volta è un corpo di donna che può raccontarne i mutamenti perché in esso è riconosciuto l’emblema della sua identità. È un corpo non più infantile ma non ancora adulto, quel corpo che Marta osserva attenta e compiaciuta. Al catechismo le insegnano che bisogna essere come Anna, già prossima ad una donna, educata, molto graziosa, ligia al dovere e pronta ad elargire le formule sacre che le sono state somministrate, esempio di conformismo che garantisce il pieno riconoscimento a cui ogni essere sociale ambisce. Eppure Marta, che desidera questa totale adesione al modello che le viene imposto e verso il quale tende ad orientare ogni sua azione, nelle sue lunghe fughe dal mondo, in fondo incomprensibile e a tratti inaccessibile, al di là dell’universo raggiungibile vede compiersi la libertà nei gesti scomposti e non conformati di alcuni ragazzi che vagano indisturbati in una discarica, liberi di dar nuova vita agli scarti del consumismo cittadino. L’umanità snocciolata dalla regista è la chiara fotografia di una società involgarita e anestetizzata dal linguaggio televisivo, priva della capacità di rielaborare il lutto per la perdita identitaria e assente nella preparazione all’accettazione della nuova identità a cui ci si apre con il passaggio. È smarrito il senso del sacro, e non inteso solo come il sommesso ripetersi di formule bibliche, ma è scomparsa quella sacralità che Pasolini vedeva nei corpi veri e viventi dell’umanità suburbana, agenti e portatori di una vitalità insita nella loro stessa natura che li rendeva propriamente umani, e la cui condizione di puro dolore e gioia orgiastica li rendeva vicini al dio. Eppure il mondo descritto è quello dello scarto sociale, è la periferia di una città che si trova alla periferia di un’Italia che ha imparato a costruire i suoi centri partendo proprio dalla creazione dello scarto. Le città non sono cerchi concentrici in cui rinnovare e ristabilire l’ordine umano del sociale, ma un unico potente agglomerato il cui accesso è garantito a pochi e che deve la propria sopravvivenza all’esistenza di una massa confusa e manipolata. È la logica di un potere di pura sopraffazione, di sfruttamento delle energie vitali che possano alimentare e compiacere un sistema basato sul consumo ossessivo. È lo sguardo maschile sul mondo, quello sguardo a cui l’uomo ha educato se stesso e che ha imparato a sentire come garanzia della propria supremazia. In questo sistema di emarginazioni plurime si inserisce l’ulteriore emarginazione della donna, che garantisce l’ordine prestabilito, l’ordine maschile.
Ma gli uomini di questa storia non rappresentano soltanto sopraffazione o abuso di potere, testimoniano la frustrazione, la crisi di una virilità misconosciuta quando le aspettative dell’ordine maschile si rivelano fuori dalla portata delle capacità umane dell’uomo stesso. Il parroco, centro propulsore della comunità cristiana, custode del sacro, garante dell’umanità insita in ogni membro, si mostra quale uomo confinato in un ruolo le cui potenzialità ha dimenticato e ambisce ad esercitare maggiore potere in un nuovo centro che lo faccia sentire parte di qualcosa e non scarto fra gli scarti. Questo bisogno di riconoscimento pervade tutto il film. La perpetua, catechista dei ragazzi che devono fare la cresima, colei che dovrebbe accompagnare di senso questo passaggio facendo di loro persone consapevoli della propria umanità, attraverso metodi mutuati dalla televisione propina un sapere scollegato e privo di qualsiasi natura sacrale. L’obiettivo è conquistare l’approvazione della comunità e del parroco di cui crede di essere innamorata, ma il cui sentimento sembra essere il bisogno di partecipare al potere tramite l’unica forma riconosciuta a una donna: la cura dell’uomo (che ne fa una serva) e l’educazione delle nuove generazioni; la frustrazione per il mancato riconoscimento si manifesta nella forza con la quale schiaffeggia Marta in chiesa durante le prove, gesto che produrrà la prima incrinatura nell’accettazione di quel mondo che la bambina non comprende e di cui intuisce solo ora l’ipocrisia (mentre si prepara il balletto delle bambine più piccole, le “vergini”, usando la canzone “Il ballo della casalinga” proviamo un fortissimo effetto straniante). Qui nasce il primo gesto di rottura con le convenzioni che compirà prima della consapevole emancipazione dalla società e della conquista dell’autonomia che sancirà il suo ingresso nel mondo adulto: il taglio scomposto e furioso dei capelli, reliquia sacra nel santuario della femminilità.
Ma la figura cardine della costruzione identitaria di Marta è la sorella con la quale ha un rapporto estremamente conflittuale proprio perché viene meno un riconoscimento, tanto desiderato, con quella che è la figura autorevole e femminile della sua famiglia; la ragazza, appena maggiorenne, assume il ruolo della madre, donna arrendevole ma l’unica veramente in grado di comprendere a fondo e di accompagnare nella verità Marta, smascherando, con la sua stessa semplicità, alcune delle continue ipocrisie in cui si sono trovate a vivere. All’appuntamento con l’ingresso alla vita conformata Marta non andrà per seguire, quale ulteriore atto di ribellione, il destino dei gattini destinati alla discarica che pagano l’indifferenza e la disumanizzazione di questo mondo. E proprio da qui comincia il viaggio verso la piena consapevolezza di sé e dei propri desideri. Il primo movimento è del corpo: l’arrivo delle mestruazioni, che sanciscono il definitivo mutamento. E poi lo svelamento, nella sua cruda verità, della miseria umana del mondo in cui è stata catapultata, seguendo gli appuntamenti “politici” del parroco e sentendo sul proprio corpo lo sguardo dell’insoddisfazione. E a Roghudi, in un minuscolo paese arrampicato su una fiumara e distrutto da un terremoto, nell’abbandono dell’uomo, fra i resti di un’antica comunità, nell’estrema solitudine dell’umano, incontra l’ultima immagine del sacro nella persona di un prete che paga la sua adesione alla realtà con una forma selvaggia di eremitaggio e che le svelerà l’ultima verità con la parola, quella devastatrice, quella cha scardina ogni ordine: Marta scopre la rabbia di Cristo e il suo disperato urlo di dolore al padre dal quale si sente abbandonato. Questa parola disgregatrice spezza le confuse aberrazioni del parroco e un Cristo figurativo (il cui corpo, ancora una volta, torna a mostrare l’umano con tutta la forza della sua verità) si lancia fuori da questo universo per non lasciarsi strumentalizzare. L’ultima fase della preparazione si è conclusa. Marta è pronta a compiere il suo ingresso nel mondo. Indossato il bianco vestito verginale, abbandona la comunità per dirigersi verso quella sconfinata libertà che aveva desiderato. L’irraggiungibile diventa possibilità di vita, il negato diventa accessibile: attraverso l’immersione nell’acqua battesimale attraverserà la linea di confine fra il mondo degli altri e il suo mondo, pronta ad iniziare la nuova vita, compiuto il passaggio. Ed è qui, nel mondo reale, che il sacro può manifestarsi, ed è qui che Marta assiste al primo vero miracolo che è la vita, mentre lì, nel luogo della spiritualità, si consuma una farsa svuotata di consapevolezza e portatrice di morte il cui emblema è un muro vuoto e una croce deposta, un parroco che balbetta formule di cui ha smarrito il senso.
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