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Convoglio Restiamo Umani

Convoglio Restiamo Umani

Striscia di Gaza - Donne e uomini nella terra a cui Vik Utopia aveva dedicato la vita. Intervista ad Alessandra Capone

Dalla Negra Cecilia Domenica, 05/06/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2011

Restiamo umani, scriveva Vittorio Arrigoni. Da quella Striscia di Gaza sotto assedio, sigillata, bombardata. Come nel 2008, durante l’offensiva israeliana “Piombo Fuso”, unica voce - la sua - a raccontare l’orrore di un attacco senza testimoni. È in quella Gaza, con lo stesso assedio e le stesse parole, che una delegazione di donne e uomini ha deciso di tornare, per ripercorrere le strade di Vittorio, quel sentiero di utopia che scandiva ogni giorno la promessa di non tacere di fronte alla verità. Di raccontarla, per impedire che qualcuno, in qualche parte del mondo, potesse dire “io non sapevo”. Sono giovani attivisti, arrivati da diverse città italiane e straniere, che hanno sentito impellente la necessità di reagire al dolore più grande. Alla morte di un amico, di un compagno di strada e di un simbolo insieme, punto di riferimento ideale, testimone prezioso. Tre settimane di riunioni febbrili, scambi di opinioni, idee in viaggio condivise sulla rete. Poi la decisione: partire per Gaza, tornare nella terra a cui Vik Utopia aveva dedicato la vita, non permettere a quel cammino di speranza e umanità di arretrare di fronte alla morte. Nasce così, dalla spontaneità dei tanti che hanno incrociato Vittorio sulla propria strada, l’idea di un’impresa che sembrava impossibile fino alle 16.30 del 12 maggio. Per arrivarci, bisogna fare un passo indietro a qualche giorno prima, quando si forma il Co.R.Um, acronimo di Convoglio Restiamo Umani, 80 donne e uomini animati dalla passione, accompagnati da approcci, vocazioni e letture del contesto differenti, che decidono di mettersi in cammino verso la Striscia di Gaza, di violarne simbolicamente l’assedio che la soffoca, di tornare nel nome di Vittorio Arrigoni per gridare a gran voce che il cammino e la solidarietà non si fermano. Dalla vittoria elettorale di Hamas nel 2007 la Striscia di Gaza è rimasta a lungo chiusa a qualunque ingresso, sia dai valichi controllati direttamente da Israele che da quello di Rafah, al confine con l’Egitto. Ed è proprio da lì che il 12 maggio, dopo un viaggio interrotto da numerosi controlli e partito simbolicamente da piazza Tahrir - luogo simbolo delle rivolte del Cairo - che questa carovana “non umanitaria ma molto umana” ha fatto ingresso a Gaza, calorosamente accolta dalla popolazione. La sua veste così poco istituzionale, una distensione nei rapporti con l’Egitto, guidato da un nuovo esecutivo che nelle scorse settimane aveva preso posizione proprio sulla riapertura del valico di Rafah, la determinazione con cui il Convoglio aveva deciso di partire, hanno contribuito a un successo difficilmente immaginabile solo fino a qualche ora prima. Perché l’ingresso nella Striscia è, soprattutto, l’abbattimento di un tabù che crea un precedente. La ridefinizione di un paradigma che da ostacolo si fa confine aperto. Tra le organizzatrici di questa spedizione (raccontata sul sito vik2gaza.org) anche Alessandra Capone, attivista della Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese, che riusciamo a contattare dal Gallery, un locale di Gaza City molto amato da Vittorio Arrigoni.



Com’è nata l’idea del Co.R.Um, e quali erano i suoi obiettivi?

Dall’iniziativa di singoli, associazioni e movimenti da sempre vicini alla popolazione palestinese, e come reazione necessaria all’uccisione di Vittorio. In un primo momento il dolore ci ha sconvolti e ognuno ha cercato di ricordarlo a suo modo, raccontando chi era e cosa faceva, ma soprattutto cosa lo aveva spinto a vivere per tanto tempo in quella che è a tutti gli effetti una prigione a cielo aperto. L’idea del convoglio è arrivata come forma di reazione collettiva, per riempiere quel senso di vuoto che la morte di Vittorio ha lasciato in tutti noi. Una risposta determinata e organizzata dal basso: tornare a Gaza per romperne simbolicamente l’assedio, per continuare a coltivare e praticare il sogno di una Palestina libera, dare voce a una popolazione ignorata dal silenzio internazionale. Il nostro primo obiettivo è stato quello di riportare a Gaza Vittorio dentro ognuno di noi, attraverso quelle idee che hanno sempre ispirato il suo e il nostro agire. E credo che ci siamo riusciti.



Una grande delegazione a Gaza dopo tanto isolamento. Che accoglienza avete avuto e qual è stata la reazione della gente?


Quando siamo riusciti a entrare ci stavano aspettando ormai da molte ore, e l’accoglienza è stata grandiosa. Giornalisti, fotografi, ma soprattutto i giovani, le ragazze e i ragazzi di Gaza, gli amici di Vittorio. Siamo scesi dagli autobus con un’enorme bandiera palestinese e poter finalmente incontrare le persone con cui in questi mesi ci siamo scritti, abbracciarli e guardarci in faccia, è stata un’emozione molto forte. Il viaggio attraverso il deserto del Sinai è stato lungo e faticoso, abbiamo dovuto superare cinque check point dell’esercito egiziano e all’ultimo ostacolo, quando mancavano ormai pochi chilometri a Rafah, siamo stati fermati per 3 ore. Lì ammetto che la speranza di entrare ha vacillato, e quando finalmente la cancellata del valico si è aperta al nostro passaggio è stato un momento molto intenso.



La Striscia di Gaza in che situazione è al momento? È ancora quella che raccontava Arrigoni?

Niente è cambiato, siamo in una Gaza ancora sotto assedio, e il nostro è stato un percorso attraverso tutti quei luoghi che Vittorio raccontava con le sue corrispondenze. Abbiamo trovato macerie e distruzione, edifici che cadono a pezzi perché manca il materiale per ricostruirli, dato che dai valichi Israele non fa passare neanche il cemento. Ci sono tante persone che vivono nelle tendopoli, immagini che ricordano quelle della Naqba del ‘48. Abbiamo incontrato anche la famiglia Al Samoni, che durante “Piombo fuso” - 30 giorni di bombardamento e oltre 1400 vittime civili - perse in una sola notte 29 dei suoi membri. Credo che sia il simbolo di una popolazione che di fronte a tutto questo continua a resistere.



Cosa avete fatto nei vostri primi giorni di visita?


Moltissime riunioni e assemblee, incontri con le Ong locali e con i pescatori di Gaza, che ci hanno mostrato la barca Oliva, da cui nei prossimi mesi una squadra di osservatori internazionali accompagnerà i pescatori monitorando le acque territoriali e accertando violazioni dei diritti umani da parte della marina militare israeliana. Abbiamo gettato le basi per l’obiettivo più importante: realizzare un media center a Gaza con il contributo di mediattivisti, giornalisti e blogger locali e internazionali, attraverso un sito web che informerà sulla vita quotidiana a Gaza non solo dal punto di vista politico, ma anche umano e culturale. Continuare il lavoro di Vittorio: proiettare Gaza nel mondo, e il resto del mondo dentro Gaza.



Mentre questo articolo viene scritto, da Gaza arrivano terribili notizie. Il 15 maggio, giorno in cui il popolo palestinese celebra la Naqba, nella Striscia di Gaza e nei Territori Occupati si sono moltiplicate le manifestazioni di protesta, per ribadire il diritto al ritorno di tutti i profughi espulsi durante l’occupazione della Palestina. Le dimostrazioni sono state violentemente represse dall’esercito israeliano, che ha ucciso 20 persone e ne ha ferite 150. Gli attivisti e le attiviste del Co.R.Um. si trovavano a Gaza, dove stavano partecipando a una grande manifestazione presso il valico di Eretz, controllato da Israele, quando l’esercito ha aperto il fuoco sui manifestanti: palestinesi, italiani e internazionali. Due le vittime e 65 i feriti, di cui alcuni molto gravi.



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IL LIBRO



“Nonno, possiamo andare a casa adesso?”



È la domanda che Yussef, il più giovane dei profughi nel campo, rivolge all’anziano Yehya dopo l’esilio forzato dal villaggio di ‘Ain Hod. Ma nella Jenin del 1948 rispondere non è possibile. Non lo sarà mai più, ma questo i palestinesi costretti ad abbandonare case, terre e villaggi in seguito alla loro occupazione, ancora non lo sanno. È una domanda dolorosa, un filo rosso che accompagnerà il lettore durante tutta la narrazione, ammaliante e intensa, di “Ogni mattina a Jenin”, della scrittrice palestinese Susan Abulhawa. E che svela il dramma di un’esistenza resa estranea dall’esproprio e dalla fuga. Yussef crescendo si farà uomo e padre, mentre la sua domanda, interiorizzata, si trasformerà in quella parola araba dalla difficile traduzione - ghorba - che porta in sé il significato di straniero e insieme il senso di lontananza di chi, allontanato dalla propria terra, non smette mai di cercarla. Un romanzo semplicemente bellissimo, affresco familiare e racconto corale insieme, intimità di una famiglia e dramma di un intero popolo, attraverso 60 anni di storia. Abulhawa stessa è pronipote di un esilio che, privando, restituisce valore alle piccole cose: le olive, i frutti, gli odori e i sapori di una terra verso la quale il ritorno è negato, un intero mondo “spazzato via dal concetto di diritti acquisiti di un altro popolo”. È la Nakba - la “catastrofe” nella storia palestinese - del 1948, l’anno in cui la Palestina “smette di tenere il conto di giorni, mesi e anni per diventare solo foschia infinita di un preciso momento storico”. È il racconto del dolore delle donne, delle madri che vedono crescere i propri figli nell’esilio; dei padri, privati del valore di una terra tramandata da generazioni. Siamo nella Jenin del 1967 quando le bombe israeliane della Guerra dei Sei Giorni cadono, e la voce narrante passa ad Amal, pilastro di una storia che utilizza l’espediente della saga familiare per attraversare tutti i momenti più drammatici della lunga storia palestinese. Sarà ancora lei, divenuta madre di una giovane donna cui passare il testimone, a tornare nel campo profughi, nella Jenin del 2002, durante il noto massacro israeliano. E nella Jenin del 2011, dove viene ucciso Juliano Mer Khamis, regista e direttore del Teatro della Libertà, questo romanzo s’impone con l’urgenza della sua intensità, toccando corde profonde e spiegando il senso intimo del legame tra un popolo e la sua terra.

Susan Abulhawa

Ogni mattina a Jenin

Feltrinelli, 2011

€ 17.00



 






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