L’Italia si ostina a non capire che essere genitori non è solo una questione di biologia, neanche quando viene condannata dalla Corte europea dei diritti umani
Domenica, 20/11/2022 - La vita e il mondo sono fatti di contraddizioni, e a volte è davvero incredibile come queste contraddizioni non appaiano immediatamente visibili agli occhi di tutti e tutte. “Io vedo tutto, questo è il mio problema”, disse Anna Politkovskaja. E vedere tutto è davvero un problema, perché nel momento in cui si vedono quelle contraddizioni create dall’ignoranza, dalla presunzione e dal pregiudizio degli esseri umani, non è possibile girarsi dall’altra parte.
nell’interesse di I.M., una giovane donna che dopo aver deciso di lasciare il proprio compagno violento – dalla relazione con il quale aveva avuto due figli nati nel 2010 e 2013 – ed essersi rifugiata presso un centro antiviolenza, ha dovuto subire anche la violenza istituzionale dello Stato di cui è cittadina, perché, nonostante lei avesse denunciato le violenze subite dal suo ex compagno, il tribunale per i minorenni costrinse i bimbi per tre anni ad incontri privi di protezione con l’uomo, nonostante i ripetuti comportamenti minacciosi e aggressivi di lui. Informato di tali comportamenti, il Tribunale non adottò alcun provvedimento restrittivo nei confronti dell’uomo; tuttavia, quando all’inizio del 2016 il Tribunale fu informato che la madre non aveva portato i bimbi a due incontri (posti a 60 chilometri di distanza dalla sua abitazione) a causa di un nuovo impegno lavorativo, e nonostante lei avesse preventivamente avvisato di tale impossibilità, sospese la responsabilità genitoriale di entrambi, motivando la propria decisione nei confronti della madre con un suo atteggiamento ostile di rifiuto degli incontri programmati. Solo nel maggio 2019 il Tribunale restituì a questa madre la responsabilità genitoriale e privò della stessa l’uomo, nel frattempo condannato a sei anni di carcere per reati legati agli stupefacenti.
sostenute dalle associazioni Lenford e Famiglie Arcobaleno – che comprensibilmente rifiutavano
che sulla carta d’identità della loro bambina una di loro fosse chiamata “padre”. Una simile sciocchezza sarebbe barrata con la penna rossa a scuola dalla maestra (o, per le pari opportunità, dal maestro), perché non ha alcun senso appellare con parole sbagliate le persone. Ma c’è da dire che in Italia l’attenzione all’uso corretto delle parole è parecchio scarsa, eppure le parole hanno un potere straordinario! La previsione del decreto non viola solo i principi della lingua italiana, ma – chiarisce il Tribunale di Roma - anche i principi costituzionali e sovranazionali cui l’Italia ha aderito, e costituisce un falso in atto pubblico perché i dati della carta d’identità non corrisponderebbero con quelli dell’atto di nascita e di adozione dei figli.
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