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Continuano gli attacchi ai diritti riproduttivi femminili

Continuano gli attacchi ai diritti riproduttivi femminili

Avversare il diritto all'aborto non risolve la crisi della natalità in Italia, per nulla correlata alle interruzioni di gravidanza che negli ultimi anni sono invece calate

Sabato, 13/07/2024 - Le tipiche temperature estive surriscaldano non solo le giornate, ma anche il clima attorno a vari temi ideologici alla base del confronto politico attuale. Così è stato per l’argomento relativo all’interruzione di gravidanza, oggetto di vari interventi ad opera di chi ne contesta la legittimità o prospetta misure statali per contrastarla. Nel primo caso il contesto di riferimento è stata la manifestazione nazionale “Scegliamo la vita”, tenutasi a Roma lo scorso 22 giugno, che a detta di una delle portavoce dell’evento, Maria Rachele Ruiu, aveva tale intento: “Chiederemo a Governo, partiti tutti, istituzioni e amministrazioni locali, nessuno escluso, di avere d’ora in poi uno sguardo privilegiato su famiglie, bambini, anziani, giovani coppie e naturalmente sulle donne, troppo spesso discriminate perché mamme, o abbandonate alla solitudine e all’aborto di fronte a gravidanze inaspettate o difficili”.
Se non che nel prosieguo dell’intervista ad un esplicita domanda sul G7, la portavoce Ruiu si è detta “spaventata da come i potenti della terra abbiano deciso di occuparsi della promozione dell’aborto. In questo mondo attanagliato dalle guerre, mutuando le parole di Madre Teresa di Calcutta, affermiamo che finché non smetterà la guerra delle madri contro i figli non potrà esserci la fine delle guerre tra popoli diversi”. Tali parole appaiono fortemente mistificatrici, perché frutto di una sistematica falsificazione della realtà. Ritenere le donne responsabili di un conflitto bellico avverso i figli che non desiderano vuol dire perseverare nell’operazione di renderle criminali agli occhi dell’opinione pubblica. Probabilmente M. Rachele Ruiu non tiene conto che molte, troppe, gravidanze sono frutto di comportamenti irresponsabili degli uomini, su cui non si intende fare ricadere l’obbligo di una consapevole procreazione.
Così facendo, si continua però a non evidenziarne le responsabilità tacendo su come essi non si preoccupino di evitare il concepimento, che non considerano per nulla come un atto di rispetto reciproco. L’intervistata punta invece le luci solo sulla colpevolezza delle donne che ricorrono all’interruzione di gravidanza, non spendendo una parola su quanti le hanno rese incinte contro la loro volontà. Addirittura arriva all’assurdo di accusare tali donne di essere generatrici del principio alla base di ogni guerra tra popoli, dimenticando che dalla notte dei tempi gli attori fondamentali di ogni scenario bellico sono gli uomini. Le donne che, invece, sono le vittime dei loro conflitti, da M. Rachele Ruiu ne sono considerate responsabili solo perché, interrompendo una gravidanza, generano il presupposto alla base “delle guerre tra popoli diversi”.
La portavoce dell’evento “Scegliamo la vita”, pur di criminalizzare le donne intenzionate ad abortire, nega quanto è universalmente riconosciuto, ossia il ruolo delle donne nei processi di pace. Appare, conseguentemente strumentale, nonché indegna, una operazione del genere figlia invece di un ulteriore attacco ai diritti riproduttivi femminili, svolto in base ad una logica pesantemente punitiva delle donne. Di contro ad un simile atteggiamento, parrebbe invece diverso l’approccio alla base del disegno di legge presentato dal sen. Maurizio Gasparri agli inizi di luglio. Il riferimento è al Reddito di maternità, inteso come leva per convincere a non abortire tutte quelle donne che valutano l’interruzione volontaria di gravidanza per motivazioni correlate alle difficoltà economiche.
Si tratta di 1.000 euro mensili per i primi 5 anni di vita del bambino, pari a 60.000 euro in un lustro, applicato unicamente alle donne italiane residenti sul territorio nazionale e non alle extracomunitarie e alle italiane all’estero. Presupposto di tale bonus è il valore dell’Isee del nucleo familiare di appartenenza della richiedente, che non deve essere superiore a 15.000 euro, fino al compimento del quinto anno di età del bambino. Le usufruttuarie però perderanno il diritto a ottenere qualsiasi altro sussidio legato alla natalità e basato sull’Isee, ossia l’Assegno unico universale e al Bonus asilo nido, fra gli altri. Presentato in tal modo il Reddito di maternità presenta nell’immediato due criticità, una per così dire a carattere soggettivo e l’altra invece oggettiva. La prima è correlata alle intenzioni di chi effettivamente voglia accedere al bonus, visto che da incinta si potrebbe presentare al consultorio con l’unico obiettivo di incassare 60.000 euro in 5 anni, pur non volendo interrompere una gravidanza. Secondo il disegno di legge, difatti basta la parola della donna per accedere al beneficio e non v’è chi non veda come potrebbero avvenire truffe, cosa che del resto lo stesso sen. Gasparri non ha escluso.
La seconda criticità è connessa alle disponibilità economiche del governo visto che il disegno di legge prevede una dotazione di 600 milioni di euro annui a decorrere dal 2024. Si tratta indubbiamente di una cifra non irrilevante in un periodo in cui l’esecutivo è costretto a dosare con il bilancino le proprie disponibilità finanziarie. Accantonando per il momento le perplessità conseguenti al ddl Gasparri ed entrando nel merito della normativa proposta dall’esponente di Forza Italia, risulta criticabile la connessione tra l’aborto e condizione economica della gestante. Difatti secondo report riferibili al 2021 solo una donna su cinque, tra quelle che avevano abortito, era disoccupata. Il dato relativo alle straniere tra l’altro illustra che erano state più di una su tre, di cui le casalinghe erano il ventisette per cento mentre il diciassette per cento erano italiane.
Indubbiamente non v’è chi nega che ci siano tante donne che rinuncino alla maternità perché non possono permettersela economicamente, ma tale fattore non è il solo ago della bilancia. Se una donna è convinta di interrompere la gravidanza, è perché è alla terza o quarta maternità e ha difficoltà ad accettarne un’altra, o perché sta vivendo una relazione difficile o nociva che non garantirebbe una stabilità emotiva, oppure perché si sta realizzando professionalmente e non vuole affrontare una gravidanza, almeno non in quel momento, perché la gestione del bebè è quasi totalmente a suo carico per mancanza e poca accessibilità ai servizi per la prima infanzia.
Per la sen. Luana Zanella di Avs “pensare che bastino pochi soldi erogati a donne povere che scelgono di abortire per sostenere la maternità è un’offesa all’intelligenza delle donne e un ulteriore espressione di misoginia di certa classe politica”. Difatti ben altre dovrebbero essere le misure a sostegno della genitorialità consapevolmente scelta, ma, si sa, questa è tutta un’altra storia ancora da scrivere. Molto più facile è colpevolizzare le donne intenzionate ad effettuare un’interruzione legale di gravidanza, come ha sostenuto M. Rachele Ruiu ritenendole in “guerra con i figli” a venire, o sottoporle all’incentivo di contributi economici, come prospetta il sen. Gasparri, quando invece la realtà illustra che non sempre le difficoltà finanziarie inducano le donne ad abortire. Vuol dire che aspetteremo che le temperature estive calino e che a mente più fresca si ragioni seriamente su come affrontare la crisi della natalità in Italia, che non è per nulla correlata alle interruzioni di gravidanza, che negli ultimi anni sono invece calate.

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