Afghanistan/ Intervista a Luisa Morgantini - Duro il cammino verso la democrazia di una terra devastata dalle guerre e dalle oppressioni che deve essere aiutata di più e meglio dalla comunità internazionale
Conti Viola Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2005
Dalla sua esperienza diretta sul campo, che idea si è fatta sullo stato generale del Paese?
L’Afghanistan vive una situazione drammatica e ciò è dovuto essenzialmente alla grave condizione economica in cui versano migliaia di profughi, per lo più donne che lottano quotidianamente per la sopravvivenza. Ad esempio sono molti i progetti per il microcredito, promossi dalle varie ong internazionali, a sostegno delle vedove rimaste senza casa, senza cibo e con i figli da sfamare che in questo modo hanno la possibilità di lavorare e di avere un tetto dove sentirsi protette. L’Afghanistan è un paese distrutto dalle guerre, affamato, mal governato, terra di barbarie e di violenza esercitata dai “signori della guerra” che hanno abolito i diritti fondamentali, assoggettando la popolazione.
La vittoria di Hamid Karzai, nelle scorse elezioni del 9 ottobre, ha prodotto dei cambiamenti?
Certamente il clima è migliorato rispetto al passato. Un passo in avanti c’è stato. Penso che Karzai, non sia un fantoccio nelle mani degli USA, è un leader più democratico che ha dato alle donne la possibilità di partecipare alla vita pubblica ed alla rinascita del Paese, attraverso nuove quote di partecipazione nelle istituzioni, come scuole, ospedali, università, uffici. Possibilità prima negata dal regime talebano che le ha costrette a vivere segregate nelle proprie case alla mercé del marito, dei parenti e dell’intera comunità maschile. Ma la responsabilità del degrado generale dell’Afghanistan non è da attribuirsi solamente al regime dei Talebani a partire dal 94, ma anche alle forze della “Alleanza del Nord” capeggiate da Massud - del quale Karzai è accusato di essere un simpatizzante - che hanno governato dal 92 al 96 e, ancora prima, dei Russi stabilitisi nel Paese dal 79 al 92. Certamente il processo di democratizzazione del Paese è ancora lungo. Ci vorranno molti anni per uscire dalla crisi, che non potrà risolversi veramente senza che via sia uno sviluppo economico sociale e culturale del Paese e senza quelle risorse intellettuali, proprie di quei leaders fuggiti all’estero durante le numerose guerre.
Le donne di Kabul possono definirsi delle “privilegiate” rispetto alle altre che vivono in altre aree del paese?
Kabul è una città complessa, colonizzata dalle numerose presenze straniere che qui hanno dato inizio all’opera di ricostruzione dopo le numerose guerre che hanno afflitto il Paese. Nella città operano ong e onlus internazionali con la protezione delle forze Nato e dell’esercito americano che però non è esente da colpe. Molte, infatti, sono le donne che vivono ancora nel terrore, paralizzate dalla paura per gli abusi e le violenze subite anche da coloro che dovevano proteggerle e che invece si sono approfittati di loro, più o meno consapevolmente. A Kabul ormai non si porta quasi più il burka, simbolo di oppressione e umiliazione per le donne schiave degli uomini, ma ci sono ancora aree del Paese dove ciò non accade perché a governare sono quei signori della guerra che continuano a seminare morte e violenza. In alcuni villaggi del Sud, come nella regione del Kandahar, vigono ancora le leggi oscurantiste esercitate dalle varie comunità maschili che impediscono alle donne di varcare la soglia di casa, di lavorare, di frequentare altre donne, di andare a scuola, imponendo, così, la loro schiavitù e completa sudditanza all’uomo. Numerosi sono i matrimoni imposti alle minorenni con i membri della stessa famiglia e le violenze esercitate dagli stessi figli sulle madri e le sorelle. L’Afghanistan è un paese povero, devastato da sempre dalle lotte tra le diverse etnie che paga, a causa del suo arretrato stato socio-culturale dovuto a tradizioni patriarcali, un prezzo altissimo. I Talebani sono stati sconfitti, ma l’ideologia purtroppo no.
In questo quadro drammatico come si è mossa la comunità internazionale?
L’Onu, l’Unicef hanno fatto molto per avviare il processo di ricostruzione, partendo dagli aiuti a sostegno dei profughi, per l’assistenza sanitaria, per l’educazione nelle scuole, attraverso risorse economiche e personale impiegato nei diversi progetti di sviluppo e di cooperazione internazionale. L’empowerment dei soggetti deboli come le donne ed i bambini è l’obiettivo di molte organizzazioni come Pangea, che ha raggiunto risultati positivi e lodevoli. Anche Emergency, la Croce Rossa ed Intersos sono stati e sono soggetti fondamentali per aumentare un clima di fiducia e il grado di sicurezza del Paese. La comunità internazionale però non è esente da responsabilità. Si deve fare di più, bisogna agire e non fare solo promesse, facendo rispettare i trattati internazionali ed eliminando gli sprechi e quella burocrazia propri dell’Onu.
Qual è la cosa che l’ha colpita più di tutte dei suoi viaggi in Afghanistan?
A Kabul, ho visto finalmente le donne guardare dritto negli occhi i loro interlocutori e non abbassare lo sguardo come, invece, avevo notato durante il primo viaggio. E questa è certamente una conquista degna di nota e densa di speranze per il futuro.
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